1. Premessa
Un problema a lungo dibattuto in giurisprudenza è quello relativo ai profili di responsabilità degli amministratori di società di capitali fallite nel caso in cui il giudizio sia promosso dal curatore fallimentare. Nello specifico, il punto di criticità verte sull’interrogativo per cui, in caso di mancata o irregolare tenuta delle scritture contabili imputabile all’amministratore, sia corretto ritenere che la liquidazione del danno debba essere effettuata sulla base del criterio della differenza tra l’attivo e il passivo accertati nell’ambito della procedura concorsuale. Sul tema sono recentemente intervenute le Sezioni Unite della Corte di Cassazione, con sentenza n. 9100 del 6 maggio 2015, fornendo un’interpretazione decisiva della problematica in esame tramite l’enunciazione di un preciso principio di diritto, secondo cui: “[…] la mancanza di scritture contabili della società, pur se addebitabile all’amministratore convenuto, di per sé sola non giustifica che il danno da risarcire sia individuato e liquidato in misura corrispondente alla differenza tra il passivo e l’attivo accertati in ambito fallimentare, potendo tale criterio essere utilizzato soltanto al fine della liquidazione equitativa del danno […]”.
Nella fattispecie in esame la Corte si era espressa in merito alla citazione in giudizio dinanzi al tribunale di Napoli, nel maggio del 2001, dell’amministratore unico di una s.r.l. fallita da parte del curatore del fallimento, con domanda di condanna al risarcimento dei danni subiti dalla società. In particolare, si lamentava che il convenuto non si fosse comportato con la dovuta diligenza, mancando di provvedere, tra le altre cose, alla tenuta dei libri sociali e alla redazione dei bilanci relativi agli anni 1994 e 1995, consentendo inoltre la distrazione di beni custoditi in locali della società e rendendosi quindi responsabile, a opinione del curatore, dello stato di insolvenza e del fallimento della società. La domanda di risarcimento veniva accolta in primo grado e confermata in appello, liquidando il danno nella misura pari alla differenza tra il passivo e l’attivo rilevati nell’ambito della procedura di fallimento della società.
Il ricorso in Cassazione da parte del convenuto e la replica con controricorso da parte dell’attore, a seguito del riscontro di un disallineamento nella giurisprudenza della Suprema Corte in materia, sono stati quindi assegnati alle Sezioni Unite.
2. La giurisprudenza della Cassazione
Come si è detto, la problematica in esame è relativa all’individuazione e liquidazione del danno nel caso di un’azione di responsabilità promossa dal curatore fallimentare nei confronti dell’amministratore della società fallita. In altre parole, ciò che si discute in giurisprudenza è se debba essere provato il nesso di causalità tra i comportamenti dell’amministratore, ad esempio la mancata tenuta dei libri contabili, e il preteso danno sul patrimonio della società fallita, nonché i criteri stessi di determinazione di quel danno.
Per un decennio la Suprema Corte si era dimostrata favorevole alla sussistenza della responsabilità in capo all’amministratore nella fattispecie in esame e all’impiego del sopracitato criterio di determinazione del danno. Tuttavia, negli anni successivi non sono mancate, da gran parte della dottrina, numerose critiche in merito all’adeguatezza di tale criterio, inducendo quindi la giurisprudenza a procedere a un ripensamento della tematica in oggetto. In effetti, le successive pronunce della Suprema Corte hanno escluso che siffatto criterio differenziale potesse essere impiegato nelle azioni di responsabilità ex art. 146 c. 2 l. fall., se non nel caso in cui il danno patrimoniale e il conseguente fallimento della società si fossero verificati per fatto imputabile agli amministratori. Conseguenza di questo orientamento è quindi la necessità non solo di provare la violazione degli obblighi e doveri a essi imposti per legge, ma, a maggior ragione, che da quelle violazioni fosse sorto il pregiudizio alla società.
Tale indirizzo si è poi confermato anche nelle successive giurisprudenze di legittimità, salvo qualche caso isolato in cui si è sostenuto che, nell’ipotesi in cui la prova del nesso di causalità tra la condotta degli amministratori e il pregiudizio subito fosse resa impossibile proprio dalla mancata o irregolare tenuta delle scritture contabili, allora si sarebbe dovuta verificare un’inversione dell’onere della prova dovendosi, inoltre, liquidare il danno nella misura della differenza tra l’attivo e il passivo.
In ogni caso, due sono le circostanze dalle quali si intuisce l’auspicabilità di un intervento delle Sezioni Unite a riguardo e, di conseguenza, l’attuale importanza della sentenza n. 9100 del 2015. Da un lato il fatto che, come si è visto, la giurisprudenza non fosse affatto unita sul punto, dall’altro, il rilievo che dei vari doveri che possono essere imposti dalla legge, dall’atto costitutivo e dallo statuto agli amministratori, non tutti presentino dei contorni nitidi e puntualmente specificati, rendendo necessaria una valutazione caso per caso delle conseguenze dannose scaturenti dalla violazione di siffatti obblighi.
Dello stesso avviso anche una parte minoritaria della dottrina, v. F. DEL VECCHIO, La responsabilità degli amministratori a norma dell’art. 146 comma 2 l. fall., in Giur. mer., 1990, III, 505 – 509. L’autore affermava infatti che il curatore non fosse tenuto a provare il nesso di causalità tra l’inadempimento e il danno nel caso in cui mancassero o fossero irregolari le scritture contabili, ritenendosi applicabile, per la quantificazione del danno, il criterio della differenza tra l’attivo e il passivo del fallimento.
3. La sentenza n. 9100 del 2015
Risulta quindi chiaro che, proprio in ragione della varietà dei doveri che gravano sull’amministratore, sia necessario per ogni fattispecie considerata fare chiarezza su quali di questi adempimenti siano quelli che si ritiene egli abbia violato. Questa indagine si pone certamente come propedeutica a quella di individuazione del danno e dei criteri per la sua quantificazione, nonché alle tematiche relative al nesso di causalità e alla ripartizione dell’onere della prova.
In effetti, questo sembra essere l’iter seguito dalle Sezioni Unite n. 9100 del 2015, le quali, innanzitutto, hanno richiamato il principio generale per cui il creditore che agisce in giudizio, sia per l’adempimento del contratto che per la risoluzione e il risarcimento del danno, ha l’onere di allegare l’inadempimento del convenuto (8). A tal riguardo risulta fondamentale allora il richiamo operato nei confronti delle Sezioni Unite n. 577 del 2008 per cui l’allegazione del creditore non può attenere a un semplice inadempimento, ma a un inadempimento qualificato, ossia astrattamente efficiente alla produzione del danno. Da ciò consegue che sull’attore gravi l’onere non solo di allegare, ma anche di provare gli altri elementi indispensabili per aversi responsabilità civile, ossia il danno e il nesso di causalità.
A seguito di questa doverosa premessa, ci si chiede, come detto, quali inadempimenti qualificati imputabili all’amministratore siano, quindi, astrattamente efficienti a produrre un danno corrispondente al deficit patrimoniale accumulato dalla società fallita e accertato in sede concorsuale. Tale ricerca sembra essere decisiva, perché solo nei confronti di simili inadempimenti pare ammissibile l’utilizzo del criterio della differenza tra l’attivo e il passivo, oggetto della nostra attenzione, accertati nell’ambito della procedura concorsuale. In questo senso, per usare le parole della Suprema Corte, inadempimenti rilevanti a tal fine “potrebbero essere soltanto quelle violazioni del dovere di diligenza nella gestione dell’impresa così generalizzate da far pensare che proprio a cagione di esse l’intero patrimonio sia stato eroso e si siano determinate le perdite registrate dal curatore, o comunque quei comportamenti che possano configurarsi come la causa stessa del dissesto sfociato nell’insolvenza”. È da ritenersi, allora, che in situazioni diverse da queste sarebbe mancante qualsiasi presupposto logico per l’applicazione del suddetto criterio. Una diversa impostazione avrebbe come conseguenza, infatti, l’allocazione del rischio di impresa e, quindi, del rischio di possibili perdite, automaticamente sulle spalle dell’amministratore, ritenendolo per questo responsabile del fallimento della società unicamente per il fatto che questo si sia verificato, il che pare francamente inammissibile.
Ciò detto, gli inadempimenti imputati all’amministratore nel caso di specie si riferivano alla distrazione di alcuni beni mobili custoditi in un magazzino della società, alla mancata redazione di due bilanci d’esercizio e delle relative dichiarazioni fiscali e, soprattutto, all’omessa tenuta della contabilità sociale. In effetti, nessuna di queste violazioni sembra essere in grado di generare nulla più che un maggior onere nell’espletamento dei compiti del curatore o, nella peggiore delle ipotesi, un aggravio nei costi della procedura concorsuale e, certamente, da esse non può derivare l’insolvenza o lo sbilancio patrimoniale della società divenuta insolvente, dato che, come lucidamente precisato dalla Suprema Corte, “la contabilità registra gli accadimenti economici che interessano l’attività dell’impresa, non li determina”.
A niente varrebbe il richiamo al principio della cosiddetta prossimità e vicinanza della prova, per cui opererebbe un’inversione dell’onere della prova ex art. 2697 c.c., giacché, posta l’incertezza dei confini applicativi di tale principio, la Corte rileva come questo non sia applicabile nel caso di specie, richiedendosi che l’inadempimento allegato dall’attore sia almeno astrattamente idoneo a porsi come causa del danno di cui si pretende il risarcimento, nesso che non può dirsi sussistente tra la mancata o irregolare tenuta delle scritture contabili e il deficit patrimoniale accertato in sede fallimentare.
4. Conclusioni
Alla luce di quanto precedentemente affermato, la Corte statuisce che il criterio di liquidazione del danno sulla base della differenza tra l’attivo e il passivo accertati in ambito fallimentare possa essere utilizzato soltanto ai fini della liquidazione equitativa del danno, “purché siano indicate le ragioni che non hanno permesso l’accertamento degli specifici effetti dannosi concretamente riconducibili alla condotta dell’amministratore e purché il ricorso a detto criterio si presenti logicamente plausibile in rapporto alle circostanze del caso concreto”.
Tale principio sembra ampiamente condivisibile, soprattutto in riferimento a quanto osservato dalla stessa Corte in un passaggio precedente. In effetti, una soluzione diversa da quella appena prospettata avrebbe l’effetto di attribuire al risarcimento del danno una funzione palesemente sanzionatoria, il che pare decisamente inammissibile, perlomeno fino a quando ciò non venga previsto espressamente da una norma di legge, così come richiesto dall’art 25 Cost., comma 2 e dall’art. 7 della Convenzione Europea sulla salvaguardia dei diritti dell’Uomo e delle libertà fondamentali.
Matteo L. Vitali
Lorenzo Bassignana
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