Commento a Cassazione Civile, Sez. I, 20 aprile 2017, n. 9983.
1. La ricostruzione della controversia
Il curatore del fallimento di una s.r.l. conveniva in giudizio i due soggetti che si erano succeduti nella carica di amministratori della società e tre istituti di credito contestando, ai primi, di non aver adottato i provvedimenti richiesti dalla legge in una situazione di perdita del capitale sociale e, anzi, di aver fatto ricorso al credito bancario e, ai secondi, di aver concesso e ingiustificatamente mantenuto linee di credito a favore della società, con ciò violando le regole di sana e prudente gestione che devono caratterizzare l’attività bancaria.
Parte attrice chiedeva dunque che gli amministratori e gli istituti di credito fossero condannati, in via tra loro solidale, a risarcire i danni cagionati alla società in ragione delle condotte sopra descritte.
Il Giudice di prime cure (i) dichiarava il fallimento privo di legittimazione ad agire nei confronti delle banche per i danni cagionati ai singoli creditori; (ii) rigettava la domanda per il risarcimento dei danni subiti dalla società; e, infine, (iii) accoglieva la domanda di responsabilità nei confronti degli amministratori condannandoli a risarcire il danno derivante dagli atti distrattivi compiuti durante l’esercizio della carica.
La Corte d’Appello confermava la sentenza resa dal Tribunale e, quindi, la curatela proponeva ricorso per Cassazione avverso la pronuncia resa in sede di gravame.
La Corte di Cassazione, in riforma della decisione resa in appello, accoglieva, infine, il ricorso, riconoscendo dunque la legitimatio ad causam del curatore fallimentare.
2. L’evoluzione della giurisprudenza della Corte di Cassazione riguardo alla responsabilità della banca per concessione abusiva di credito
La pronuncia in esame suscita particolare interesse poiché, nell’ambito della giurisprudenza in materia di responsabilità della banca per concessione abusiva di credito, si pone come il punto d’arrivo dell’impostazione ermeneutica delineata dalla
Corte di Cassazione, dapprima, a Sezioni Unite, con le pronunce “gemelle” del 28 marzo 2006 e, in seguito, con la decisione del 1° giugno 2010 n. 13413.
È stato infatti nelle pronunce delle Sezioni Unite sopra richiamate che la Suprema Corte ha affrontato il tema della legittimazione del curatore fallimentare ad agire in giudizio contro le banche per il risarcimento del danno arrecato al patrimonio della società fallita dall’abusiva concessione di credito. Infatti, sebbene in tali casi le pretese avanzate dalla curatela non siano state accolte per motivi di rito, le menzionate decisioni hanno comunque avuto il pregio di precisare i confini delle azioni risarcitorie esperibili in caso di illecita concessione di nuove linee di credito o di ingiustificato mantenimento di quelle esistenti.
Da tali condotte, infatti, possono derivare due distinte tipologie di danno che legittimano due distinte categorie di soggetti ad agire in giudizio per ottenerne il relativo risarcimento.
In primis, si è ritenuto infatti configurabile un danno subìto direttamente dai singoli creditori a causa dell’incremento dello squilibrio tra attivo e passivo, cui consegue una riduzione della loro possibile soddisfazione nell’ambito della procedura concorsuale (e a cui, peraltro, può aggiungersi anche quello che discende dal mendace affidamento ingenerato nel mercato dall’apparente solvibilità dell’impresa artificiosamente finanziata). L’azione per ottenere il risarcimento di tale danno non può essere esercitata dal curatore ma esclusivamente dai singoli creditori, essendo diretta al ristoro del pregiudizio patrimoniale da essi subìto in via “diretta”, così come nell’ipotesi contemplata dall’art. 2395 c.c.
È poi configurabile il danno patito dalla società, derivante dall’aggravio del proprio passivo tramite l’ottenimento o, dal punto di vista della banca, la concessione di nuova finanza e dal successivo occultamento dell’emersione dello stato di insolvenza. Tale azione, in quanto volta alla reintegrazione del patrimonio del debitore, è un’azione che, in caso di fallimento, compete al curatore ai sensi dell’art. 146 L.F.
L’impostazione appena descritta è stata confermata anche da una successiva pronuncia del 2010 con cui la Corte di Cassazione ha precisato i confini della responsabilità della banca nei confronti della società per abusiva concessione di credito. In tale occasione,
infatti, i giudici di legittimità hanno affermato, in maniera esplicita, che la banca può concorrere nell’illecito commesso dagli amministratori della società che abbiano illegittimamente fatto ricorso al credito in una situazione prossima all’insolvenza. Tuttavia, anche in questo caso, la richiesta risarcitoria non è stata accolta per ragioni di rito.
Dando seguito all’orientamento testé illustrato, la Suprema Corte con la sentenza qui annotata ha sancito – ancora una volta – la legittimazione del curatore fallimentare ad agire in giudizio, ex artt. 2393 c.c. e 146 L.F., nei confronti della banca nel caso in cui quest’ultima abbia concorso con gli amministratori (avendo acconsentito alle loro richieste) a porre in essere le condotte che hanno reso possibile l’abusivo ricorso al credito da parte della società e, conseguentemente, a cagionare un danno alla stessa. La Corte di Cassazione ha quindi accolto la domanda risarcitoria formulata dalla curatela, rinviando la causa alla competente Corte d’Appello.
3. I presupposti della responsabilità della banca
Chiarita l’importanza della sentenza in esame nell’evoluzione della giurisprudenza della Suprema Corte, vanno analizzati i principi in essa affermati per quanto concerne, in primo luogo, il contenuto della responsabilità della banca e, in secondo luogo, la determinazione del danno che la medesima è chiamata a risarcire in solido con gli amministratori.
La responsabilità solidale della banca trova ovviamente il suo presupposto proprio nella condotta negligente degli amministratori, i quali, in una situazione di tensione- economico finanziaria che – se affrontata con la dovuta diligenza – imporrebbe la necessità di avvalersi degli idonei strumenti forniti dalla legge (4), abbiano invece deciso di ricorrere al credito bancario, con ciò celando la crisi vissuta dalla società gestita e aggravando il deficit del suo patrimonio.
Ebbene, l’illecito della banca si verifica proprio in una simile contingenza, quando cioè gli amministratori della società decotta vi si rivolgano al fine di ottenere l’erogazione di nuova finanza e quest’ultima, pur essendo consapevole del dissesto dell’impresa (o colpevolmente ignorandolo), accolga tale richiesta e conceda un finanziamento.
I presupposti perché sia ravvisabile l’illecito della banca sono quindi, in ordine logico,
(i) che la società finanziata si trovi in una situazione di crisi irreversibile che, se manifesta, potrebbe condurre alla dichiarazione di fallimento; (ii) che gli amministratori, decidano di ricorrere al credito bancario anziché alle opportune procedure previste dalla legge, contravvenendo così alle regole di buona gestione; e, infine, (iii) che la banca, nonostante fosse edotta dello stato di insolvenza (ovvero ignorandolo per propria negligenza), abbia concesso (o prorogato o anche solo mantenuto) il finanziamento.
La responsabilità della banca, quindi, discende dall’eventuale omissione di tutte quelle verifiche che tipicamente vengono svolte nell’ambito dell’erogazione del credito.
L’osservanza delle regole di condotta che caratterizzano l’istruttoria preliminare diviene così il principale parametro in base al quale valutare la diligenza dell’istituto di credito e, conseguentemente, ravvisare una sua condotta colposa. Occorre tuttavia chiarire che l’effettiva diligenza della banca non va verificata solo con riferimento al momento genetico del rapporto con la società finanziata (e alla documentazione standard che solitamente viene raccolta e analizzata dalle banche in tale frangente), estendendosi anche a tutto il periodo in cui il rapporto debitorio risulti pendente. In altri termini, la banca deve costantemente rivedere le proprie valutazioni sulla base dei nuovi elementi di volta in volta acquisiti (o acquisibili con la dovuta diligenza), specialmente nei momenti di rinnovo/conferma del rapporto in essere.
Sul punto, deve inoltre osservarsi che il grado di diligenza richiesto alla banca (e ai suoi funzionari) non è quello del buon padre di famiglia, ma piuttosto la speciale diligenza professionale richiesta al bonus argentarius: il buon banchiere, quindi, non solo dovrà possedere specifiche competenze, ma anche essere dotato dei mezzi più idonei per garantire una prudente e puntuale verifica delle condizioni patrimoniali (e del merito creditizio) del proprio cliente.
La responsabilità della banca nei confronti della società per il danno da abusiva concessione di credito potrà configurarsi unicamente come responsabilità concorrente
con quella degli amministratori dell’impresa in crisi. L’erogazione del credito è infatti un atto neutro: non può – di per sé – determinare né un danno né un vantaggio per la società e pertanto, per una simile valutazione, occorre che la nuova finanza sia rapportata allo scopo per il quale viene conseguita (o erogata). L’eventuale danno non può infatti che discendere dall’utilizzo e dalle finalità che vengono perseguite dagli amministratori: qualora la nuova finanza fosse utilizzata nell’ambito di una delle modalità consentite dalla legge (ovverosia, ad esempio, nell’ambito di un piano «che appaia idoneo a consentire il risanamento dell’esposizione debitoria dell’impresa e ad assicurare il riequilibrio della sua situazione finanziaria»), essa non potrebbe evidentemente che rappresentare un beneficio per l’impresa.
La responsabilità della banca, pertanto, sorge unicamente nel momento in cui la concessione del credito avvenga fuori da simili contesti e le somme così ottenute siano impiegate al solo scopo di mantenere artificiosamente in vita un’impresa destinata invece al fallimento.
4. Il danno derivante dall’abusiva concessione del credito
La pronuncia in esame ha inoltre il merito di fare chiarezza anche sul profilo dell’identificazione del danno derivante da tale responsabilità e della sua quantificazione.
Quanto al primo punto, la Suprema Corte ha avuto modo di affrontare una delle maggiori critiche rivolte alla linea interpretativa assunta, ovverosia quella secondo cui – pur in presenza di un’inadeguata valutazione del merito creditizio – la decisione rispetto alla concreta utilizzazione del finanziamento ottenuto dall’impresa spetta unicamente a quest’ultima, con ciò dimostrando come la destinazione delle risorse ottenute sia del tutto estranea all’erogazione del credito che, anzi, si colloca in un momento anteriore all’eventuale aggravio del dissesto economico.
Senonché, ad avviso della Corte di Cassazione, una simile tesi non è minimamente sostenibile, in quanto è l’erogazione stessa del credito che, se concessa quando la società debitrice abbia perso il proprio capitale, è dotata di un’intrinseca efficacia causale. Il danno, infatti, consiste proprio nel ritardo dell’emersione del dissesto che – a sua volta – determina l’aggravamento del deficit patrimoniale prima della dichiarazione di fallimento (e dell’apertura della procedura concorsuale che – al contrario – avrebbe proprio la precipua finalità di preservare la massa attiva della società in default).
Ne discende che il banchiere che non abbia adoperato adeguatamente le proprie risorse e le proprie competenze professionali al fine di accertare l’effettivo merito creditizio della società decotta e, ciononostante, abbia concesso credito a quest’ultima, finisce inevitabilmente per compartecipare – in via solidale – alle responsabilità derivanti dalla mala gestio degli amministratori.
Passando quindi al secondo punto in questione (ossia la quantificazione del danno), risulta evidente che la quantificazione di tale danno non possa essere limitata all’aggravamento degli oneri finanziari ingenerato dalla nuova finanza, ma debba piuttosto essere ricondotta – in qualche modo – all’effettiva misura dell’incremento del deficit patrimoniale della società che sia stato direttamente causato dall’occultamento del suo stato di crisi.
È in questa logica che la Corte ammette – sulla scorta del principio già enunciato in passato dalle Sezioni Unite – la possibilità, per il caso in cui l’attore abbia allegato le specifiche ragioni impeditive di un «rigoroso accertamento degli effetti dannosi», di ricorrere alla liquidazione del danno in via equitativa, secondo il criterio presuntivo della differenza dei netti patrimoniali.
Si può allora ipotizzare che, qualora sia impossibile ricostruire analiticamente l’effetto ingenerato dell’abusivo ricorso al credito (in ragione per esempio dell’incompletezza dei dati contabili o dell’intercorrere di un periodo di tempo particolarmente significativo), il danno possa essere quantificato applicando il criterio della differenza dei netti patrimoniali, ossia tra l’esposizione debitoria alla data in cui la crisi era divenuta irreversibile e quella riscontrata alla dichiarazione di fallimento.
5. Conclusioni
L’orientamento seguito dalla Suprema Corte nel corso dell’ultimo decennio consente – in maniera sempre più evidente – alle curatele di intraprendere azioni a tutela della massa attiva nei confronti degli istituti di credito che abbiano – colpevolmente – erogato nuova finanza a imprese in crisi (e lo abbiano fatto al di fuori del perimetro consentito dal legislatore, ossia fuori dall’ambito degli strumenti di soluzione delle crisi d’impresa).
Se ciò, da un lato, permette una significativa tutela – quantomeno indiretta – dei creditori della società fallita, che potranno beneficiare di azioni di responsabilità potenzialmente ben più fruttuose, dall’altro lato impone alle banche una condotta prudente, sia nella predisposizione di adeguate misure al fine di verificare costantemente il merito creditizio dei propri clienti, sia nel non ignorare (né sottovalutare) le situazioni di crisi delle società che accedono al credito.
Alla luce di quanto precede, si può quindi concludere che, qualora un istituto di credito si trovi di fronte a un’impresa in difficoltà, le opzioni più tutelanti siano, da un lato, il “congelamento” della situazione esistente e il diniego di nuova finanza e, dall’altro lato, la sua eventuale concessione nell’ambito di un piano di risanamento ex art. 67, comma 3, lett. d) L.F. o di un accordo di ristrutturazione ex art. 182-bis L.F.. Diversamente, la banca si esporrebbe al rischio di future (potenziali) azioni di responsabilità da parte delle curatele delle imprese eventualmente dichiarate fallite.
Giacomo De Zotti e Matteo Miramondi, Greco Vitali Associati – Studio Legale
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