Il Consiglio dei Ministri ha approvato in esame definitivo un decreto legislativo che, in attuazione della Legge 19 ottobre 2017, n. 155, introduce il nuovo Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza

Ripercorreriamo sinteticamente le principali novità contenute nel disegno di legge approvato dalle Camere, con l’obiettivo di illustrarlo secondo un criterio “cronologico”.

1. Premessa

A circa quattro anni dall’introduzione dell’art. 123-ter TUF, per effetto del d.lgs. 30 dicembre 2010, n. 259, approvato in seguito al recepimento di alcune Raccomandazioni della Commissione Europea, la Consob è recentemente tornata sul tema della remunerazione degli amministratori pubblicando, nella collana dei “Quaderni di Finanza”, un contributo dal titolo «Say-on-pay in a context of concentrated ownership». Si tratta, in particolare, di un’analisi relativa alla prima applicazione del meccanismo del voto consultivo sulle politiche di remunerazione (c.d. «say on pay») da parte delle società quotate italiane.

La riflessione tocca una problematica generale che – già emersa in misura significativa in seguito alla crisi finanziaria del 2008 e al fallimento di Lehman Brothers – ha finito per rivestire un ruolo centrale nelle tematiche di corporate governance tornando, anche in seguito ad alcuni interventi a livello comunitario, al centro del dibattito dottrinario.

Scopo dichiarato del documento della Commissione è quello di verificare la “tenuta” del meccanismo del voto consultivo rispetto agli assetti proprietari delle società quotate italiane. In particolare, si tratta di esaminare se esso possa effettivamente rappresentare uno strumento con cui possa essere efficacemente espresso il dissenso degli azionisti anche in situazioni in cui l’azionariato sia modulato in maniera, e in misura, tali da vedere una netta prevalenza dei soci di controllo.

È senz’altro d’interesse la metodologia adottata dagli autori del lavoro che – al fine di accertare quali siano gli elementi che spingano gli azionisti a votare contro le politiche di remunerazione – hanno misurato tale propensione rispetto a una serie di variabili rispettivamente riguardanti la struttura della remunerazione, il livello di informativa rispetto alle politiche sui compensi, l’attivismo degli investitori istituzionali, nonché le caratteristiche degli assetti proprietari.

2. Quadro normativo

Mentre per le società «chiuse» la norma di riferimento che regola i compensi degli amministratori è solamente rappresentata dall’art. 2389 c.c. che legittima la modulazione dei compensi sia con la partecipazione agli utili sia con l’adozione di piani di stock option e – per le società che adottano il sistema dualistico di amministrazione – l’art. 2409 terdecies, lett. a) c.c., per le società quotate – rispetto alle quali rimangono in ogni caso applicabili anche le due norme anzidette – è prevista un’ulteriore articolazione del regime. Ciò sia a livello primario (con le disposizioni del TUF: art. 114-bis e, di introduzione recente, art. 123-ter), sia a livello regolamentare (Regolamento Emittenti, n. 11971/99 come modificato: art. 84-quater), sia sotto il profilo della best practice con specifiche previsioni contenute nell’ultima edizione del Codice di Autodisciplina (art. 6).

In tale contesto, assume un rilievo centrale l’art. 123-ter TUF, che, al sesto comma, accoglie, tra l’altro, la regola del c.d. say on pay, prescrivendo che, ventuno giorni prima dell’assemblea annuale degli azionisti, sia messa a disposizione del pubblico una relazione sulla remunerazione.

Tale relazione, approvata dal Consiglio di amministrazione (o dal Consiglio di sorveglianza nelle società che adottano il sistema dualistico), è articolata in due sezioni. La prima sezione deve descrivere le politiche della società in materia di remunerazione dei componenti degli organi di amministrazione, dei direttori generali e dei dirigenti con responsabilità strategiche con riferimento all’esercizio successivo, nonché illustrare le procedure adottate per l’attuazione di tale politica. Questa prima parte della relazione è sottoposta al voto non vincolante dei soci (c.d. say on pay) e i risultati di tale votazione devono essere portati a conoscenza del pubblico attraverso il sito internet della società, entro cinque giorni dalla data dell’assemblea.

La seconda sezione, invece, deve illustrare, nominativamente, per ciascuno dei componenti degli organi di amministrazione e controllo, dei direttori generali e, in forma aggregata, per i dirigenti con responsabilità strategiche, le singole voci in cui si articola la remunerazione.

Più nello specifico, sulla base delle disposizioni regolamentari adottate dalla Consob in attuazione della delega contenuta nell’art. 123-ter T.U.F, è previsto che siano indicati i trattamenti previsti in caso di cessazione della carica o di risoluzione del rapporto (c.d. golden parachutes), mettendone in luce la coerenza con la politica di remunerazione approvata dalla società nell’esercizio precedente.

Tutte le componenti della remunerazione sono suddivise in diverse categorie, tra cui, ad esempio, i compensi fissi o i compensi per la partecipazione a comitati. È altresì prevista una disciplina molto dettagliata per la comunicazione della parte variabile della remunerazione, distinguendo tra stock option e altri piani di incentivazione diversi da queste ultime.

3. Il quaderno di finanza

Si può fin da ora anticipare che – secondo le risultanze del documento Consob – anche in mercati ove la proprietà è più concentrata, le minoranze risultano comunque incentivate a ricorrere al meccanismo del voto consultivo come strumento per indirizzare la propria insoddisfazione. L’origine dell’insoddisfazione degli azionisti, inoltre, non risulta – come si potrebbe superficialmente pensare – collegata alle performance della società – e, quindi, ai risultati della gestione di impresa – ma agli squilibri che si registrano nella determinazione dei compensi.

I risultati sono i seguenti a) il dissenso sulle politiche in materia di remunerazione in Italia è in media pari al 5,1 per cento dei votanti; tale valore appare inferiore, ma non eccessivamente distante da quello registrato in paesi a proprietà dispersa, come USA e UK; b) il dissenso è negativamente correlato con la quota di capitale detenuta dal principale azionista; tale risultato può essere interpretato alla luce del fatto che in imprese a proprietà concentrata la remunerazione dell’organo di amministrazione è sottoposta a un più intenso monitoraggio ovvero che la presenza di un azionista di controllo forte può disincentivare tout court l’espressione del dissenso da parte delle minoranze; c) il dissenso è poco legato alle performance dell’impresa ma è positivamente correlato con la remunerazione del CEO; inoltre il dissenso è negativamente correlato con il livello di disclosure delle politiche, in particolare per quanto attiene alla parte variabile della remunerazione; d) il dissenso è influenzato positivamente dal livello di attivismo degli investitori istituzionali, misurato attraverso la loro partecipazione alle assemblee e attraverso la presenza di amministratori da essi nominati nel board; e) il dissenso è più basso nelle società finanziarie, dove il voto sulle politiche in materia di remunerazione è vincolante; ciò potrebbe indicare che la natura consultiva del voto nella generalità delle quotate non ne riduce l’efficacia in termini di segnale inviato dagli azionisti al board.

Quanto all’articolazione del documento, va rilevato che, dopo una prima parte dedicata all’inquadramento della fattispecie e alla descrizione della disciplina applicabile al fenomeno, la seconda parte si propone di verificare, sulla base dei dati storici, quali siano i fattori che hanno indirizzato il voto degli azionisti nel meccanismo del voto consultivo sulle politiche di remunerazione nelle società quotate italiane.

3.1. Struttura della remunerazione e struttura proprietaria

Si è evidenziato anzitutto che gli azionisti, pur avendo il diritto di votare solo sulla parte della relazione relativa alle politiche future di remunerazione degli amministratori, potrebbero usare il proprio voto al fine di dimostrare la propria insoddisfazione rispetto all’attuale entità e/o struttura dei compensi dei manager, così come emergono dalla seconda parte della relazione.

È stato comunque notato che, in linea generale, non sono comuni situazioni in cui il dissenso degli azionisti è superiore al 20% dei voti espressi in assemblea (7,5%) e, peraltro, con particolare riferimento al nostro ordinamento, le rare volte in cui non è stata raggiunta la maggioranza assoluta (1,8%) erano in corso più complesse vicende di ristrutturazione societaria o di cambio del controllo.

Nondimeno, l’evidenza empirica ha dimostrato che sussiste un rapporto di diretta proporzionalità fra il livello dei compensi dei manager e il dissenso degli azionisti: all’aumentare degli uni aumenta anche l’altro. Più nello specifico, però, il dissenso dei soci si è rivelato particolarmente pronunciato quando le remunerazioni degli amministratori sono state percepite come estremamente, o oltraggiosamente, alte.

Si è altresì osservato che il dissenso degli azionisti è correlato alla struttura della remunerazione. A tale riguardo, però, lo studio pubblicato dalla Conosb premette che, in linea teorica, a fronte dei dati relativi all’ordinamento anglosassone, il dissenso degli azionisti dovrebbe risultare particolarmente elevato proprio con riferimento alle decisioni concernenti la parte variabile della remunerazione degli amministratori.

L’esperienza italiana, tuttavia, risente della struttura proprietaria altamente concentrata che caratterizza la maggioranza delle società quotate. Pertanto, nei casi in cui si riscontra una forte e compatta presenza degli azionisti di controllo, il dissenso espresso attraverso il meccanismo say on pay è mediamente basso. Lo studio Consob ha evidenziato inoltre che tale dissenso in Italia è, mediamente, pari al 5,1%. Si tratta di un dato statistico leggermente inferiore rispetto al risultato medio ottenuto in ordinamenti caratterizzati da azionariato diffuso (7,9% in Gran Bretagna e 8,9% negli Stati Uniti) ma, d’altra parte, si è dimostrato assolutamente in linea con i dati raccolti nell’ordinamento tedesco (6,5%), anch’esso caratterizzato da società con struttura proprietaria altamente concentrata. Ciò che emerge in contesti come quello italiano e quello tedesco si spiega in considerazione del fatto che i soci di controllo sono nelle condizioni per poter monitorare le decisioni degli amministratori relative alla determinazione dei propri compensi. Si potrebbe, in alternativa, ritenere che la presenza di un azionista di controllo forte finisca per disincentivare l’espressione del dissenso da parte delle minoranze.

Di contro, il maggior dissenso che è stato riscontrato negli ordinamenti in cui prevale la struttura proprietaria ad azionariato diffuso, si giustifica proprio in ragione del fatto che manca un azionista di controllo che sia in qualche modo in grado di monitorare le decisioni dell’organo amministrativo.

3.2. Trasparenza sulle voci della remunerazione

Malgrado il Regolamento Emittenti abbia individuato il nucleo minimale di informazioni che devono essere indicate nella sezione della relazione sulle politiche di remunerazione da sottoporre al voto consultivo degli azionisti, questo non ha tuttavia contemplato uno schema standard in base al quale essa deve essere formulata, lasciando così alle singole società un certo margine di discrezionalità circa il livello di trasparenza da adottare. Non va però dimenticato che la disclosure sui compensi degli amministratori permette agli investitori di ottenere informazioni circa il «sistema di incentivi vigente in ogni impresa» e, di conseguenza, favorisce «una più accurata valutazione della società e l’esercizio su base informata dei diritti degli azionisti», nonché l’assunzione di decisioni di investimento

«informate e consapevoli». Pertanto, la discrezionalità lasciata alle singole società dal

Regolamento Emittenti in ordine agli elementi informativi da inserire nella prima sezione della relazione sulla politica di remunerazione dei manager, potrebbe rappresentare un’opportunità per lo sviluppo di una sana e virtuosa competizione fra imprese sul piano della trasparenza riguardo alla struttura e all’entità dei futuri compensi degli amministratori, con il fine ultimo di attrarre investitori.

I dati empirici, infatti, hanno evidenziato che un buon livello di disclosure, riduce il dissenso degli azionisti, i quali da questo punto di vista hanno dimostrato di apprezzare notevolmente la trasparenza, soprattutto per quanto attiene gli elementi che costituiscono la parte variabile della remunerazione dei componenti dell’organo gestorio.

Pertanto, alla luce della correlazione tra disclosure e dissenso degli azionisti, non pare incongruo ritenere che l’esistenza di informazioni dettagliate riguardo alle voci in cui si articola il compenso degli amministratori sia condizione preliminare affinché possano esplicarsi gli effetti positivi del meccanismo di voto sulle politiche retributive adottate dalla società.

A prescindere dal livello di disclosure, tuttavia, gli azionisti si sono rivelati maggiormente sensibili rispetto all’entità del compenso corrisposto agli amministratori, giacché è soprattutto a fronte di remunerazioni particolarmente (e spesso ingiustificatamente) elevate che essi hanno manifestato in misura maggiore il proprio dissenso.

3.3. Attivismo degli investitori istituzionali

Sotto diverso e ulteriore profilo, il documento Consob ha messo in luce l’importanza dell’attivismo degli investitori istituzionali in relazione alle decisioni sul compenso dei manager, tanto che il dissenso espresso dagli azionisti al riguardo è parso positivamente correlato alla presenza di investitori istituzionali attivi e partecipi. Questi ultimi, infatti, possono ricoprire un ruolo assai significativo, non solo prendendo parte all’assemblea generale degli azionisti, ma soprattutto eleggendo – negli ordinamenti in cui è previsto – (almeno) un consigliere c.d. “di minoranza” (6). Secondo lo studio condotto dalla Consob, questo istituto pone le basi affinché gli investitori istituzionali, nominando un proprio consigliere “di minoranza”, estraneo al gruppo di controllo, possano monitorare il comportamento degli amministratori direttamente al livello del consiglio di amministrazione, e, in tal modo, assicurare che la gestione dell’impresa sia orientata al perseguimento dell’interesse sociale e non di quello (personale) del socio egemone o degli amministratori. Pertanto, il consigliere “di minoranza”, specialmente quando – come molto spesso accade – fa parte del comitato per la remunerazione, dovrebbe vigilare affinché gli amministratori non stabiliscano il proprio compenso a un livello troppo elevato e, di conseguenza, estraggano “rendite private” in forma di remunerazioni eccessive.

3.4. Voto consultivo vs. voto vincolante

L’ultimo aspetto meritevole di attenzione riguarda il funzionamento del voto sulle remunerazioni degli amministratori nelle società sottoposte alla vigilanza della Banca d’Italia e dell’ISVAP. In tali ipotesi, infatti, l’assemblea dei soci, probabilmente in ragione della peculiare natura dell’attività bancaria e di quella assicurativa, riveste un ruolo assai incisivo giacché il voto che essa esprime sulla politica di remunerazione dei manager è vincolante rispetto alle successive decisioni del consiglio di amministrazione (9).

La Consob ha tuttavia rilevato che in tale contesto, malgrado il differente ruolo dell’assemblea dei soci, il dissenso degli azionisti è minore rispetto alle realtà in cui il voto sulla politica di remunerazione dei manager ha una funzione meramente consultiva. A questo proposito è stato affermato che la natura vincolante del voto espresso dagli azionisti, i quali in tal modo assumono su di sé la (cor)responsabilità della decisione sulle politiche retributive dei manager, potrebbe ridurre la loro libertà di espressione attraverso la votazione assembleare. Di contro, là dove il voto non è vincolante, essi potrebbero sentirsi più liberi di manifestare il proprio dissenso.

Pertanto, la natura non vincolante del voto sulle politiche di remunerazione degli amministratori non sembra idonea a ridurne l’effettività e la valenza segnaletica nei confronti del mercato; anzi, l’evidenza empirica parrebbe dimostrare il contrario.

Matteo L. Vitali

Matteo Miramondi

1. Premessa.

Di seguito è riportata una sintetica illustrazione della disciplina della “start-up innovativa”
introdotta dal c.d. “Decreto Crescita 2.0”, ossia il Decreto Legge 18 ottobre 2012, n. 179,
recante “Ulteriori misure urgenti per la crescita del Paese”, convertito in Legge 17 dicembre 2012,
n. 221 e pubblicato in Gazzetta Ufficiale 18 dicembre 2012, n. 294.

La recente riforma, ispirandosi alla necessità di innovare gli strumenti dedicati alle imprese, al
fine di renderle più competitive e “flessibili” ha in particolare previsto la start-up innovativa al fine
di favorire lo sviluppo di un contesto economico e imprenditoriale favorevole all’innovazione,
alla ricerca e allo sviluppo, nonché capace di promuovere una maggiore mobilità sociale e attrarre
nuovi investimenti e capitali, anche dall’estero.

La nuova disciplina si caratterizza, in generale, per il fatto di contemplare una serie di
vantaggi e di benefici – sia di natura civilistica, sia di natura fiscale – a favore delle imprese che
adottano tale veste societaria, a condizione tuttavia che (i) siano soddisfatti alcuni requisiti formali
e sostanziali previsti per la costituzione della start-up innovativa e (ii) la società sia iscritta nella
apposita sezione speciale istituita presso il Registro delle Imprese.

2. Definizione di start-up innovativa e requisiti necessari.

Il secondo comma dell’art. 25 del D.L. 18 ottobre 2012, n. 179 (così come modificato dalla
legge di conversione) prevede una serie di requisiti formali e sostanziali necessari affinché
un’impresa possa essere qualificata come start-up innovativa.

Innanzitutto, sotto il profilo formale, può essere start-up innovativa la società di capitali (e
quindi: la società per azioni, la società in accomandita per azioni, la società a responsabilità
limitata – anche nella forma di S.r.l. semplificata o S.r.l. a 1 euro), costituita anche in forma
cooperativa, di diritto italiano, ovvero la società europea residente in Italia, le cui azioni o quote
rappresentative del capitale sociale non sono quotate su un mercato regolamentato o su un
sistema multilaterale di negoziazione.

Quanto all’aspetto sostanziale, la disciplina richiede la presenza di una serie di requisiti
affinché l’ente societario possa qualificarsi quale start-up innovativa. In particolare:
a) la società deve essere costituita e svolgere attività d’impresa da non più di 48 mesi;
b) la società deve avere la sede principale dei propri affari e interessi in Italia;
c) a partire dal secondo anno di attività, il totale del valore della produzione annua, così
come risultante dall’ultimo bilancio (approvato entro sei mesi dalla chiusura
dell’esercizio), non deve essere superiore a 5 milioni di euro;
d) la società non deve distribuire o comunque aver distribuito utili;
e) la società deve avere quale oggetto sociale (esclusivo o prevalente) lo sviluppo, la
produzione e la commercializzazione di prodotti o servizi innovativi ad alto valore
tecnologico;
f) la società non deve essere stata costituita da una fusione, da una scissione societaria o a
seguito di cessione di azienda o di ramo di azienda.

Fermi restando tali requisiti, la start-up innovativa deve inoltre possedere almeno uno dei
seguenti ulteriori requisiti sostanziali:
1) le spese in ricerca e sviluppo sostenute dalla società devono essere uguali o superiori al
15 per cento del maggior valore fra costo e valore totale della produzione. Dal computo
per le spese in ricerca e sviluppo sono escluse le spese per l’acquisto e la locazione di
beni immobili. Inoltre, in aggiunta a quanto previsto dai principi contabili, sono altresì da
annoverarsi tra le spese in ricerca e sviluppo: le spese relative allo sviluppo
precompetitivo e competitivo, quali sperimentazione, prototipazione e sviluppo del
business plan, le spese relative ai servizi di incubazione forniti da incubatori certificati, i
costi lordi di personale interno e consulenti esterni impiegati nelle attività di ricerca e
sviluppo, inclusi soci e amministratori, le spese legali per la registrazione e protezione di
proprietà intellettuale, termini e licenze d’uso;
2) la società deve impiegare come dipendenti o collaboratori a qualsiasi titolo, in
percentuale uguale o superiore al terzo della forza lavoro complessiva, personale in
possesso di titolo di dottorato di ricerca o che sta svolgendo un dottorato di ricerca
presso un’università italiana o straniera, oppure in possesso di laurea e che abbia svolto,
da almeno tre anni, attività di ricerca certificata presso istituti di ricerca pubblici o privati,
in Italia o all’estero, ovvero deve impiegare, in percentuale uguale o superiore a due terzi
della forza lavoro complessiva, personale in possesso di laurea magistrale;
3) la società deve essere titolare o depositaria o licenziataria di almeno una privativa
industriale relativa a una invenzione industriale, biotecnologica, a una topografia di
prodotto a semiconduttori o a una nuova varietà vegetale, ovvero deve essere titolare dei
diritti relativi a un programma per elaboratore originario registrato presso il Registro
pubblico speciale per i programmi per elaboratore, purché tali privative siano
direttamente afferenti all’oggetto sociale e all’attività d’impresa.

Il testo previgente dell’art. 25, secondo comma, del D.L. 18 ottobre 2012, n. 179 richiedeva
che, nelle start-up innovative, i soci persone fisiche dovessero detenere, al momento della
costituzione e per i successivi 24 mesi, la maggioranza delle quote o delle azioni rappresentative
del capitale sociale e dei diritti di voto nell’assemblea ordinaria dei soci. Tale previsione,introdotta con
l’intento di garantire l’aspetto personalistico della compagine sociale che costituiva
e promuoveva la start-up nella sua fase iniziale, è stata tuttavia abrogata dall’art. 9, sedicesimo
comma, lett. a), del c.d. “Decreto Lavoro” (ossia il Decreto Legge 28 giugno 2013, n. 76,
convertito con modificazioni dalla Legge 9 agosto 2013, n. 99). Pertanto, a seguito
dell’eliminazione dei predetti vincoli alla composizione del capitale sociale della start-up nei primi
24 mesi dalla sua costituzione, è ora consentito ai fondi di investimento e di venture capital investire
sin da subito, senza vincoli di sorta, nel capitale delle società costituitesi come start-up innovative.

3. Incubatore di start-up innovative certificato.

Accanto alla figura della start-up innovativa, la disciplina normativa prevede anche l’ulteriore
figura della c.d. società “incubatore certificato di start-up innovative”, definita come la società
di capitali, costituita anche in forma cooperativa, di diritto italiano ovvero come la società
europea residente in Italia, che offre i servizi per sostenere la nascita e lo sviluppo di start-up
innovative. In particolare, per essere qualificata da tale forma, la società deve possedere i seguenti
requisiti:
a) deve disporre di strutture, anche immobiliari, adeguate ad accogliere start-up innovative,
quali spazi riservati per poter installare attrezzature di prova, test, verifica o ricerca;
b) deve disporre di attrezzature adeguate all’attività delle start-up innovative, quali sistemi di
accesso a banda ultra-larga alla rete internet, sale riunioni, macchinari per test, prove o
prototipi;
c) deve essere amministrata o diretta da persone di riconosciuta competenza in materia di
impresa e innovazione e deve avere a disposizione una struttura tecnica e di consulenza
manageriale permanente;
d) deve avere a disposizione regolari rapporti di collaborazione con università, centri di
ricerca, istituzioni pubbliche e partner finanziari che svolgono attività e progetti collegati a
start-up innovative;
e) deve essere in possesso di un’adeguata e comprovata esperienza nell’attività di sostegno
a start-up innovative.

Il possesso di tali requisiti è autocertificato dall’incubatore di start-up innovative mediante
dichiarazione sottoscritta dal proprio rappresentante legale, al momento dell’iscrizione nella
sezione speciale del Registro delle Imprese.

4. Iscrizione nella sezione speciale del Registro delle Imprese ed esenzione dagli
oneri per l’avvio.

Per poter godere dei vari benefici previsti dalla normativa, le start-up innovative e gli
incubatori certificati sono tenuti all’iscrizione obbligatoria nell’apposita sezione speciale del
Registro delle Imprese.

Inoltre, dal momento dell’iscrizione nella sezione speciale, la start-up innovativa e l’incubatore
certificato sono esonerati dal pagamento dell’imposta di bollo e dei diritti di segreteria dovuti per gli
adempimenti relativi alle iscrizioni nel Registro delle Imprese, nonché dal pagamento del diritto
annuale dovuto in favore delle camere di commercio. Tali esenzioni sono tuttavia condizionate al
mantenimento dei requisiti previsti dalla legge per l’acquisizione della qualifica di start-up
innovativa e di incubatore certificato e durano al massimo per quattro anni dall’iscrizione.

5. Deroghe al diritto societario.

Al fine di favorire le start-up innovative e gli incubatori certificati sono previste diverse
disposizioni derogatorie della disciplina civilistica societaria. In particolare:
1) è possibile posticipare sino al secondo anno di esercizio la delibera di riduzione del
capitale sociale nel caso di perdita a meno di un terzo, in deroga a quanto specificamente
previsto dagli artt. 2446, secondo comma e 2482-bis, quarto comma c.c.;
2) nel caso di riduzione del capitale sociale al di sotto del minimo legale, l’assemblea dei soci
può disporre il rinvio alla chiusura dell’esercizio successivo la deliberazione di riduzione
del capitale e il contemporaneo aumento dello stesso sino a una cifra non inferiore al
minimo legale, così come previsto dagli artt. 2447 e 2482-ter c.c.;
3) l’atto costitutivo della start-up innovativa costituita in forma di s.r.l., anche in deroga a
quanto previsto dal codice civile, può creare categorie di quote che non attribuiscono
diritti di voto o che attribuiscono al socio diritti di voto in misura non proporzionale alla
partecipazione da questi detenuta, ovvero diritti di voto limitati a particolari argomenti o
subordinati al verificarsi di particolari condizioni non meramente potestative;
4) le quote di partecipazione detenute nella start-up innovativa costituita sotto forma di s.r.l.
possono costituire oggetto di offerta al pubblico di prodotti finanziari, in deroga a
quanto espressamente previsto dall’art. 2468, comma primo, c.c.;
5) sempre nelle start-up innovative costituite in forma di s.r.l., il divieto di operazioni sulle
proprie partecipazioni stabilito dall’art. 2474 c.c. non trova applicazione qualora
l’operazione sia compiuta in attuazione di piani di incentivazione che prevedano
l’assegnazione di quote di partecipazione a dipendenti, collaboratori o componenti
dell’organo amministrativo, prestatori di opera e servizi anche professionali.
6) infine, l’atto costitutivo della start-up innovativa o dell’incubatore certificato può altresì
prevedere, a seguito dell’apporto da parte dei soci o di terzi anche di opera o servizi,
l’emissione di strumenti finanziari forniti di diritti patrimoniali o anche di diritti
amministrativi, escluso il voto nelle decisioni dei soci ai sensi degli art. 2479 e 2479-bis
c.c.

6. Agevolazioni di natura finanziaria e fiscale.

Oltre a quanto già esposto nei paragrafi precedenti, la nuova disciplina ha introdotto diversi e
ulteriori incentivi per la costituzione e lo sviluppo delle start-up innovative, nonché importanti
agevolazioni sia di carattere finanziario sia fiscale.

In particolare, è stato introdotto un regime fiscale e contributivo agevolato molto ampio per
le stock options e per i piani di incentivazione fondati sull’assegnazione di azioni, quote o titoli
similari agli amministratori o anche agli stessi dipendenti. Inoltre, sono previsti canali privilegiati
per accedere al credito d’imposta per l’assunzione di personale altamente qualificato.

Con l’espresso obbiettivo di promuovere gli investimenti finanziari per la costituzione e lo
sviluppo di start-up innovative, è inoltre prevista una serie di rilevanti agevolazioni di natura fiscale
per tali investimenti, tramite la previsione di detrazioni e deduzioni d’imposta. Al fine di
agevolare la raccolta di capitale di rischio è legittimato anche il ricorso al sistema
dell’equitycrowdfunding con la conseguente possibilità di favorire l’ingresso di nuovi soci attraverso la
sottoscrizione di capitale tramite portali on-line sui quali la società possa presentare la propria
iniziativa imprenditoriale.

Da ultimo, anche al fine di consentire una soluzione più rapida ed efficiente della crisi di
impresa, è prevista una semplificazione delle procedure concorsuali: le start-up innovative non
possono infatti essere oggetto di procedure concorsuali (e, pertanto, non sono fallibili), ad
eccezione dei procedimenti di composizione della crisi da sovra-indebitamento e di liquidazione
del patrimonio.

Matteo L. Vitali – Filippo Caprotti

1. Premessa

Il Parlamento Europeo, con Risoluzione del 17 novembre 2011, aveva rilevato che le disparità tra le legislazioni nazionali in materia di insolvenza avrebbero potuto pregiudicare il buon esito delle operazioni di ristrutturazione delle imprese insolventi, favorendo peraltro il deprecabile fenomeno del c.d. forum shopping. Sotto altro profilo, il Parlamento Europeo, con il medesimo provvedimento, pur avendo preso atto dell’impossibilità di pervenire a un diritto sostanziale comune a tutti gli Stati membri in materia di insolvenza, aveva riscontrato l’esistenza di aree del diritto della crisi d’impresa in cui l’armonizzazione si sarebbe rivelata molto utile e di attuazione relativamente agevole.

Pertanto, il Parlamento Europeo aveva richiesto alla Commissione Europea di formulare una o più proposte legislative in materia fallimentare.

La Commissione Europea, dal canto suo, ha risposto a questa Risoluzione con due importanti iniziative: la prima consistente nella revisione del Regolamento CE n. 1346/2000 (riguardante il regime applicabile alle c.d. insolvenze transfrontaliere) e la seconda rappresentata dalla Raccomandazione del 12 marzo 2014 qui in esame.

Al riguardo, pare appena il caso di osservare che numerosi elementi contenuti nella Raccomandazione sono rinvenibili – in quanto già previsti – all’interno della legge fallimentare italiana e, in particolare, nel complesso di regole applicabili al concordato preventivo, oggetto in questi ultimi anni di interventi radicali e “ortopedici” del legislatore che ne hanno sensibilmente innovato la disciplina.

2. Ambito di applicazione e obiettivi

Occorre preliminarmente chiarire che la Raccomandazione qui analizzata non si applica alle imprese assicuratrici, agli enti creditizi, alle imprese di investimento e, più in generale, agli altri istituti finanziari soggetti a regimi speciali di risanamento e risoluzione delle crisi in cui le autorità di vigilanza nazionali godono di ampi poteri di intervento. Resta invece salva la facoltà dei legislatori nazionali di estendere l’applicazione dei principi espressi nella Raccomandazione anche nei confronti dei consumatori, benché essi non ne risultino esplicitamente i destinatari.

Con riferimento alle finalità perseguite, invece, il provvedimento adottato dalla Commissione Europea intende anzitutto favorire la ristrutturazione “precoce” delle imprese che si trovino ad affrontare una situazione di momentanea difficoltà finanziaria, in modo tale da impedirne l’insolvenza e scongiurare gli effetti negativi che da tale circostanza derivano, non solo per il debitore ma anche per i creditori e, più in generale, per il sistema economico-produttivo.

La Raccomandazione in esame mira altresì a favorire la c.d. “fresh start”, ossia «il reinserimento nel contesto economico degli imprenditori già assoggettati a procedura», sulla scia di alcuni dati statistici dell’Unione Europea i quali dimostrano che, tra gli imprenditori attualmente operanti con successo, il 18% aveva fallito il primo tentativo.

Secondo la Commissione Europea, tali obiettivi possono essere raggiunti unicamente mediante interventi ad hoc da parte dei legislatori nazionali che – in una prospettiva di armonizzazione fra i diversi ordinamenti degli Stati membri – siano finalizzati a «ridurre le divergenze e le inefficienze che ostacolano la ristrutturazione precoce di imprese sane in difficoltà finanziaria e la possibilità per gli imprenditori onesti di ottenere una seconda opportunità». A questo fine, il provvedimento in esame ha previsto «norme minime in materia di (a) quadri di ristrutturazione preventiva, e (b) liberazione dai debiti degli imprenditori falliti» alle quali gli Stati membri devono ispirarsi nell’attuazione della Raccomandazione.

3. Ristrutturazione preventiva

Per ciò che concerne più in particolare la ristrutturazione preventiva delle imprese in crisi, la Commissione Europea ha invitato gli Stati membri a predisporre un quadro normativo idoneo a consentire al debitore di accedere a misure e procedure di ristrutturazione «non appena sia evidente che sussiste probabilità di insolvenza», senza tuttavia che tale iniziativa comporti per il debitore in crisi una perdita del controllo diretto della gestione dell’impresa.

La Commissione Europea auspica altresì che la procedura di ristrutturazione sia strutturata in modo tale da svolgersi in tempi rapidi e con costi contenuti, limitando il ricorso al giudice nei soli casi in cui risulti effettivamente necessario e funzionale a una miglior tutela dei diritti dei creditori e dei terzi.

3.1. Sospensione delle azioni esecutive individuali e della procedura di insolvenza

La Commissione ha precisato che l’inizio delle operazioni di ristrutturazione dell’impresa in crisi non deve impedire al debitore di richiedere la sospensione temporanea delle azioni esecutive individuali proposte nei suoi confronti dai creditori, quand’anche questi ultimi siano titolari di un privilegio o di una garanzia. Peraltro, secondo le indicazioni della Commissione, in tale periodo di sospensione dovrebbero essere altresì sospesi sia l’obbligo per il debitore di presentare istanza per il proprio fallimento, sia la facoltà per i creditori di richiedere l’apertura della procedura di insolvenza nei confronti del debitore.

Tuttavia, allo scopo di garantire un giusto equilibrio tra gli interessi del debitore e quelli dei creditori, la durata della sospensione dovrebbe essere stabilita in funzione della complessità delle operazioni di ristrutturazione previste e, in ogni caso, non dovrebbe essere superiore a quattro mesi.

Appare evidente che le previsioni normative appena menzionate si fondino sul convincimento che il risanamento delle imprese in crisi sia un valore da tutelare e, per tale ragione, la Commissione ha inteso evitare che il buon esito delle operazioni di ristrutturazione e i benefici che ne conseguono possano essere compromessi dall’esercizio di azioni individuali da parte dei singoli creditori.

3.2. I nuovi finanziamenti

La Raccomandazione in esame, a conferma del favor delle istituzioni europee verso la prevenzione dell’insolvenza e il recupero delle imprese in crisi, ha previsto che i finanziamenti concessi per l’attuazione del piano di ristrutturazione non debbano poter essere «dichiarati nulli, annullabili o inopponibili in quanto atti pregiudizievoli per la massa dei creditori», in modo tale da incentivare il sostegno finanziario alle imprese in difficoltà. La Raccomandazione ha inoltre chiarito che i soggetti che concedono i nuovi finanziamenti, previsti nel piano di ristrutturazione omologato dal giudice, dovrebbero essere esonerati da qualsiasi responsabilità (civile o penale) connessa al processo di ristrutturazione.

Si tratta per la verità di «regole minime» che però appaiono perfettamente coerenti con lo spirito e la ratio complessiva del provvedimento.

3.3. Il piano di ristrutturazione: contenuto e caratteristiche

Il provvedimento analizzato in questa sede è intervenuto, in primo luogo, sul contenuto minimo del piano di ristrutturazione, precisando che esso dovrebbe contenere una descrizione dettagliata i) dei creditori interessati dal piano; ii) degli effetti della ristrutturazione proposta su singoli crediti o categorie di crediti; iii) della posizione dei creditori riguardo al piano di ristrutturazione; iv) delle condizioni per (eventuali) nuovi finanziamenti; nonché v) dell’idoneità del piano a impedire l’insolvenza del debitore e a garantire la redditività futura dell’impresa.

Quanto alla struttura, la Raccomandazione in esame ha precisato che il piano può contemplare la suddivisione dei creditori in classi, purché a ciascuna classe appartengano creditori portatori di interessi omogenei. Da questo punto di vista, un utile elemento discretivo è sicuramente rappresentato dalla circostanza che i creditori siano o meno titolari di una garanzia.

Peraltro, più in generale, la Commissione Europea ha voluto garantire ai creditori interessati dalla procedura di ristrutturazione il massimo grado di coinvolgimento, invitando i legislatori dei singoli Stati membri a prevedere modalità di partecipazione al voto con mezzi di comunicazione a distanza.

3.4. Modalità di attuazione del piano, omologazione ed effetti

Allo scopo di semplificare le modalità di accesso alle procedure di ristrutturazione dell’impresa in crisi, il provvedimento in esame ha previsto che il debitore debba essere posto in condizione di avviare il processo di risanamento «senza dover iniziare ufficialmente un’azione in giudizio».

Si colloca lungo la stessa linea di intervento la previsione in virtù della quale il giudice non è obbligatoriamente tenuto a nominare un «mediatore o supervisore», dovendo piuttosto valutare di volta in volta se tale nomina sia o meno necessaria, considerato che il mediatore ha il compito di assistere il debitore e i creditori nel condurre a buon fine il negoziato sul piano di ristrutturazione, mentre il supervisore esercita essenzialmente una funzione di controllo sulla regolarità del negoziato. Alla luce di quanto precede, e con specifico riferimento al nostro ordinamento, si può osservare che la figura del mediatore non è perfettamente sovrapponibile a quella del commissario giudiziale dei nostri concordati preventivi: rimane dunque da capire se quest’ultimo possa esercitare anche le funzioni di mediatore o se, in caso contrario, sia necessario procedere alla nomina di un altro soggetto che possa assumere ed esercitare tali specifiche funzioni.

Per ciò che concerne invece le modalità di adozione del piano, la Commissione ha inteso innanzitutto assicurare la vincolatività del piano di ristrutturazione nei confronti di tutti i creditori, una volta che sia stato approvato dalla maggioranza di questi e omologato dal giudice. Peraltro, nel caso in cui sia stata prevista la suddivisione in classi, il piano di ristrutturazione dovrebbe essere approvato dalla maggioranza dei crediti di ciascuna classe.

Nondimeno, in una prospettiva di certezza del diritto e di tutela dei differenti interessi coinvolti nella procedura di ristrutturazione, il piano che abbia ripercussioni nei confronti dei creditori dissenzienti o che preveda nuovi finanziamenti dovrebbe essere vincolante unicamente dopo che sia intervenuta l’omologazione da parte del giudice, che tuttavia potrà avvenire esclusivamente qualora siano state rispettate una serie di condizioni minime di garanzia, dettagliate nella Raccomandazione.

Risponde alle medesime esigenze di garanzia la previsione per effetto della quale tutti i creditori potenzialmente interessati dal piano di ristrutturazione dovrebbero essere informati dei suoi contenuti e godere del diritto di opporsi, proponendo ricorso contro il piano stesso. Anche in questo caso, però, la Commissione si è sforzata di contemperare l’interesse – particolare – dei creditori pregiudicati dal piano a opporsi a quanto in esso previsto e quello – generale – al risanamento dell’impresa. È stato infatti disposto che, in linea di principio, il ricorso contro il piano di ristrutturazione non deve sospenderne l’attuazione.

La Commissione, tuttavia, ha voluto impedire un impiego meramente dilatorio e opportunistico degli strumenti di prevenzione dell’insolvenza del debitore in crisi, chiarendo che, in ogni caso, gli Stati membri sono tenuti a provvedere affinché il giudice possa respingere i piani che appaiano manifestamente inidonei rispetto alla ristrutturazione dell’impresa o a garantirne la redditività futura.

A ogni modo, dal punto di vista dell’efficacia, è opportuno precisare che la Raccomandazione in esame parrebbe distinguere tra piani votati all’unanimità (in quanto tali idonei a vincolare tutti i creditori a prescindere dall’intervento del giudice) e piani non votati all’unanimità (che, viceversa, necessitano dell’omologazione del giudice per poter vincolare tutti i creditori, ancorché dissenzienti).

A tal proposito è possibile notare che, sebbene il provvedimento della Commissione intenda semplificare notevolmente l’accesso alle procedure di ristrutturazione dell’impresa in crisi valorizzandone – da una parte – gli aspetti privatistici e riducendo – dall’altra parte – l’intervento del giudice, resta comunque fermo in capo all’Autorità giudiziaria sia il potere di accordare il beneficio della sospensione delle azioni esecutive, sia quello di omologare il piano, in modo tale da renderlo vincolante anche nei confronti dei creditori che abbiano manifestato il proprio dissenso.

4. Fresh start

Come si è anticipato, l’altro macro-obiettivo del provvedimento in esame è permettere all’imprenditore “onesto ma sfortunato” di godere di una seconda chance. La Raccomandazione ha pertanto previsto che l’imprenditore sia ammesso al beneficio della liberazione integrale dei debiti interessati dal procedimento di composizione della crisi dopo un massimo di tre anni decorrenti dalla data del fallimento, in caso di procedura liquidatoria, ovvero dall’attuazione del piano di ristrutturazione, in caso di procedura di risanamento.

Occorre tuttavia tenere ben presente che il beneficio della liberazione dai debiti ha carattere premiale e, di conseguenza, non può essere concesso all’imprenditore che abbia agito in modo disonesto o in male fede ovvero che non abbia cooperato in funzione della tutela degli interessi dei creditori, ad esempio, non aderendo a un piano di ristrutturazione particolarmente idoneo a tal fine.

Peraltro, nella visione della Commissione, ferme le condizioni appena richiamate, l’effetto dell’esdebitazione dovrebbe essere una conseguenza automatica del decorso del termine triennale dal fallimento o dall’attuazione del piano di risanamento, senza che sia necessaria alcuna specifica richiesta al giudice.

5. Conclusioni

 I primi commenti relativi alla Raccomandazione in esame sono stati complessivamente favorevoli, sebbene non siano mancate alcune critiche delle quali, sia pure sinteticamente, pare opportuno rendere conto.

In particolare, benché siano stati apprezzati i contenuti del provvedimento adottato dalla Commissione Europea, ha destato alcune perplessità lo strumento normativo scelto per veicolarne l’attuazione negli ordinamenti degli Stati membri, ossia la Raccomandazione, la quale, data la natura non vincolante, rischierebbe di tradursi in un intervento scarsamente incisivo al lato pratico.

Peraltro, tale preoccupazione parrebbe rivelarsi ancor più fondata a fronte delle brevi tempistiche previste per l’attuazione della Raccomandazione medesima. È stato infatti stabilito che gli Stati membri debbano procedere ad attuare i principi in essa enunciati entro 12 mesi dalla sua pubblicazione, avvenuta il 12 marzo 2014, e che la Commissione ne valuterà l’attuazione entro 18 mesi, decorrenti dalla stessa data.

Per tale ragione, pur auspicando che la scelta della Commissione Europea si riveli adeguata ed efficace, è emerso il convincimento che la traduzione in diritto vigente dei principi espressi nella Raccomandazione richiederà tempistiche maggiori rispetto a quelle previste. È stato pertanto suggerito di non escludere a priori l’opportunità di adottare, in un secondo momento e in caso di mancata attuazione della Raccomandazione, una direttiva in modo da abbreviare i tempi per la realizzazione dei medesimi obiettivi.

Matteo L. Vitali

Matteo Miramondi

1. Premessa

Un problema a lungo dibattuto in giurisprudenza è quello relativo ai profili di responsabilità degli amministratori di società di capitali fallite nel caso in cui il giudizio sia promosso dal curatore fallimentare. Nello specifico, il punto di criticità verte sull’interrogativo per cui, in caso di mancata o irregolare tenuta delle scritture contabili imputabile all’amministratore, sia corretto ritenere che la liquidazione del danno debba essere effettuata sulla base del criterio della differenza tra l’attivo e il passivo accertati nell’ambito della procedura concorsuale. Sul tema sono recentemente intervenute le Sezioni Unite della Corte di Cassazione, con sentenza n. 9100 del 6 maggio 2015, fornendo un’interpretazione decisiva della problematica in esame tramite l’enunciazione di un preciso principio di diritto, secondo cui: “[…] la mancanza di scritture contabili della società, pur se addebitabile all’amministratore convenuto, di per sé sola non giustifica che il danno da risarcire sia individuato e liquidato in misura corrispondente alla differenza tra il passivo e l’attivo accertati in ambito fallimentare, potendo tale criterio essere utilizzato soltanto al fine della liquidazione equitativa del danno […]”.

Nella fattispecie in esame la Corte si era espressa in merito alla citazione in giudizio dinanzi al tribunale di Napoli, nel maggio del 2001, dell’amministratore unico di una s.r.l. fallita da parte del curatore del fallimento, con domanda di condanna al risarcimento dei danni subiti dalla società. In particolare, si lamentava che il convenuto non si fosse comportato con la dovuta diligenza, mancando di provvedere, tra le altre cose, alla tenuta dei libri sociali e alla redazione dei bilanci relativi agli anni 1994 e 1995, consentendo inoltre la distrazione di beni custoditi in locali della società e rendendosi quindi responsabile, a opinione del curatore, dello stato di insolvenza e del fallimento della società. La domanda di risarcimento veniva accolta in primo grado e confermata in appello, liquidando il danno nella misura pari alla differenza tra il passivo e l’attivo rilevati nell’ambito della procedura di fallimento della società.

Il ricorso in Cassazione da parte del convenuto e la replica con controricorso da parte dell’attore, a seguito del riscontro di un disallineamento nella giurisprudenza della Suprema Corte in materia, sono stati quindi assegnati alle Sezioni Unite.

2. La giurisprudenza della Cassazione

Come si è detto, la problematica in esame è relativa all’individuazione e liquidazione del danno nel caso di un’azione di responsabilità promossa dal curatore fallimentare nei confronti dell’amministratore della società fallita. In altre parole, ciò che si discute in giurisprudenza è se debba essere provato il nesso di causalità tra i comportamenti dell’amministratore, ad esempio la mancata tenuta dei libri contabili, e il preteso danno sul patrimonio della società fallita, nonché i criteri stessi di determinazione di quel danno.

Per un decennio la Suprema Corte si era dimostrata favorevole alla sussistenza della responsabilità in capo all’amministratore nella fattispecie in esame e all’impiego del sopracitato criterio di determinazione del danno. Tuttavia, negli anni successivi non sono mancate, da gran parte della dottrina, numerose critiche in merito all’adeguatezza di tale criterio, inducendo quindi la giurisprudenza a procedere a un ripensamento della tematica in oggetto. In effetti, le successive pronunce della Suprema Corte hanno escluso che siffatto criterio differenziale potesse essere impiegato nelle azioni di responsabilità ex art. 146 c. 2 l. fall., se non nel caso in cui il danno patrimoniale e il conseguente fallimento della società si fossero verificati per fatto imputabile agli amministratori. Conseguenza di questo orientamento è quindi la necessità non solo di provare la violazione degli obblighi e doveri a essi imposti per legge, ma, a maggior ragione, che da quelle violazioni fosse sorto il pregiudizio alla società.

Tale indirizzo si è poi confermato anche nelle successive giurisprudenze di legittimità, salvo qualche caso isolato in cui si è sostenuto che, nell’ipotesi in cui la prova del nesso di causalità tra la condotta degli amministratori e il pregiudizio subito fosse resa impossibile proprio dalla mancata o irregolare tenuta delle scritture contabili, allora si sarebbe dovuta verificare un’inversione dell’onere della prova dovendosi, inoltre, liquidare il danno nella misura della differenza tra l’attivo e il passivo.

In ogni caso, due sono le circostanze dalle quali si intuisce l’auspicabilità di un intervento delle Sezioni Unite a riguardo e, di conseguenza, l’attuale importanza della sentenza n. 9100 del 2015. Da un lato il fatto che, come si è visto, la giurisprudenza non fosse affatto unita sul punto, dall’altro, il rilievo che dei vari doveri che possono essere imposti dalla legge, dall’atto costitutivo e dallo statuto agli amministratori, non tutti presentino dei contorni nitidi e puntualmente specificati, rendendo necessaria una valutazione caso per caso delle conseguenze dannose scaturenti dalla violazione di siffatti obblighi.

Dello stesso avviso anche una parte minoritaria della dottrina, v. F. DEL VECCHIO, La responsabilità degli amministratori a norma dell’art. 146 comma 2 l. fall., in Giur. mer., 1990, III, 505 – 509. L’autore affermava infatti che il curatore non fosse tenuto a provare il nesso di causalità tra l’inadempimento e il danno nel caso in cui mancassero o fossero irregolari le scritture contabili, ritenendosi applicabile, per la quantificazione del danno, il criterio della differenza tra l’attivo e il passivo del fallimento.

3. La sentenza n. 9100 del 2015

Risulta quindi chiaro che, proprio in ragione della varietà dei doveri che gravano sull’amministratore, sia necessario per ogni fattispecie considerata fare chiarezza su quali di questi adempimenti siano quelli che si ritiene egli abbia violato. Questa indagine si pone certamente come propedeutica a quella di individuazione del danno e dei criteri per la sua quantificazione, nonché alle tematiche relative al nesso di causalità e alla ripartizione dell’onere della prova.

In effetti, questo sembra essere l’iter seguito dalle Sezioni Unite n. 9100 del 2015, le quali, innanzitutto, hanno richiamato il principio generale per cui il creditore che agisce in giudizio, sia per l’adempimento del contratto che per la risoluzione e il risarcimento del danno, ha l’onere di allegare l’inadempimento del convenuto (8). A tal riguardo risulta fondamentale allora il richiamo operato nei confronti delle Sezioni Unite n. 577 del 2008 per cui l’allegazione del creditore non può attenere a un semplice inadempimento, ma a un inadempimento qualificato, ossia astrattamente efficiente alla produzione del danno. Da ciò consegue che sull’attore gravi l’onere non solo di allegare, ma anche di provare gli altri elementi indispensabili per aversi responsabilità civile, ossia il danno e il nesso di causalità.

A seguito di questa doverosa premessa, ci si chiede, come detto, quali inadempimenti qualificati imputabili all’amministratore siano, quindi, astrattamente efficienti a produrre un danno corrispondente al deficit patrimoniale accumulato dalla società fallita e accertato in sede concorsuale. Tale ricerca sembra essere decisiva, perché solo nei confronti di simili inadempimenti pare ammissibile l’utilizzo del criterio della differenza tra l’attivo e il passivo, oggetto della nostra attenzione, accertati nell’ambito della procedura concorsuale. In questo senso, per usare le parole della Suprema Corte, inadempimenti rilevanti a tal fine “potrebbero essere soltanto quelle violazioni del dovere di diligenza nella gestione dell’impresa così generalizzate da far pensare che proprio a cagione di esse l’intero patrimonio sia stato eroso e si siano determinate le perdite registrate dal curatore, o comunque quei comportamenti che possano configurarsi come la causa stessa del dissesto sfociato nell’insolvenza”. È da ritenersi, allora, che in situazioni diverse da queste sarebbe mancante qualsiasi presupposto logico per l’applicazione del suddetto criterio. Una diversa impostazione avrebbe come conseguenza, infatti, l’allocazione del rischio di impresa e, quindi, del rischio di possibili perdite, automaticamente sulle spalle dell’amministratore, ritenendolo per questo responsabile del fallimento della società unicamente per il fatto che questo si sia verificato, il che pare francamente inammissibile.

Ciò detto, gli inadempimenti imputati all’amministratore nel caso di specie si riferivano alla distrazione di alcuni beni mobili custoditi in un magazzino della società, alla mancata redazione di due bilanci d’esercizio e delle relative dichiarazioni fiscali e, soprattutto, all’omessa tenuta della contabilità sociale. In effetti, nessuna di queste violazioni sembra essere in grado di generare nulla più che un maggior onere nell’espletamento dei compiti del curatore o, nella peggiore delle ipotesi, un aggravio nei costi della procedura concorsuale e, certamente, da esse non può derivare l’insolvenza o lo sbilancio patrimoniale della società divenuta insolvente, dato che, come lucidamente precisato dalla Suprema Corte, “la contabilità registra gli accadimenti economici che interessano l’attività dell’impresa, non li determina”.

A niente varrebbe il richiamo al principio della cosiddetta prossimità e vicinanza della prova, per cui opererebbe un’inversione dell’onere della prova ex art. 2697 c.c., giacché, posta l’incertezza dei confini applicativi di tale principio, la Corte rileva come questo non sia applicabile nel caso di specie, richiedendosi che l’inadempimento allegato dall’attore sia almeno astrattamente idoneo a porsi come causa del danno di cui si pretende il risarcimento, nesso che non può dirsi sussistente tra la mancata o irregolare tenuta delle scritture contabili e il deficit patrimoniale accertato in sede fallimentare.

4. Conclusioni

Alla luce di quanto precedentemente affermato, la Corte statuisce che il criterio di liquidazione del danno sulla base della differenza tra l’attivo e il passivo accertati in ambito fallimentare possa essere utilizzato soltanto ai fini della liquidazione equitativa del danno, “purché siano indicate le ragioni che non hanno permesso l’accertamento degli specifici effetti dannosi concretamente riconducibili alla condotta dell’amministratore e purché il ricorso a detto criterio si presenti logicamente plausibile in rapporto alle circostanze del caso concreto”.

Tale principio sembra ampiamente condivisibile, soprattutto in riferimento a quanto osservato dalla stessa Corte in un passaggio precedente. In effetti, una soluzione diversa da quella appena prospettata avrebbe l’effetto di attribuire al risarcimento del danno una funzione palesemente sanzionatoria, il che pare decisamente inammissibile, perlomeno fino a quando ciò non venga previsto espressamente da una norma di legge, così come richiesto dall’art 25 Cost., comma 2 e dall’art. 7 della Convenzione Europea sulla salvaguardia dei diritti dell’Uomo e delle libertà fondamentali.

Matteo L. Vitali

Lorenzo Bassignana

The recent reform of Italian Bankruptcy Law (“IBL”), by effect of Law Decree n. 83 of June 27, 2015, converted with amendments into Law n. 132 of August 6, 2015, introduced new institutes and rules to implement the efficiency of pre-insolvency procedures, with the aim to support the financing of distressed companies. This brief note describes and analyses the novelties introduced by the reform with specific regard to the new competitive sales in the procedures of composition with creditors (“concordato preventivo”), directed to maximize the value of the debtor’s assets and guarantee the creditors’ best interest and satisfaction.

New Article 163-bis of IBL provides that a financial plan of a “concordato preventivo” proposal (hereinafter, the “Plan”) including an offer by a designated third party to purchase all or part of the debtor’s assets or business units for a pre-determined price entitles the Court to look for other third parties interested in the purchase, providing the opening of a public and competitive bid procedure. The competitive procedure shall be opened even when the debtor has already entered into a binding contract for the (immediate or not immediate) transfer of the debtor’s company or of its business units or assets.

In particular, the Court shall open the mandatory bid procedure and issue a decree that determines the guidelines for the bid (the “Decree”). The Court’s decree shall provide: (i) procedure and criteria to present the competing offers, that shall be irrevocable; (ii) necessary requirements to participate to the auction; (iii) terms and time limits for bidders to access to the company’s relevant information; (iv) the date of the public hearing in which the offers will be disclosed and examined; (v) modalities and steps of the competitive procedure; (vi) warranties and guarantees which can be required to the bidders by the Court; (vii) forms of advertising of the competitive procedure; and (viii) the minimum increase of the price determined in the first offer included in the Plan.

The first offer included in the Plan will become irrevocable only when the same offer will be submitted again (modified and adapted) in accordance with the provisions of the Decree and the first bidder will grant the guarantee required by the Court.

All the offers shall be presented in secret form and comply with the provisions of the Decree and, in any case, shall not be subjected to conditions.

At the public hearing fixed in the Decree the offers are disclosed, made public and examined at the presence of the bidders and of all other interested parties.

When are presented new offers which are better than the first offer (“offerte migliorative”), the Court shall open an auction among the bidders. The auction can take place at the same hearing or in a immediately following hearing and shall be completed before the creditors’ meeting (“adunanza dei creditori” provided by Article 163 of the IBL for voting the Plan submitted by the debtor). The transfer of the auctioned assets or business units can take place also before the approval by the Court of the “concordato preventivo” (“decreto di omologazione”).

In any case, when the purchase is awarded to a bidder which is different from the bidder who presented the first offer included into Plan, the first bidder will be released from all the obligations entered into with the debtor and the judicial commissioner will dispose the reimbursement of the expenses and costs incurred by the first bidder in relation to its offer, within the limit of three percent of the total price indicated in the said offer.

When the bid process is completed and the best offer selected, the debtor shall amend the Plan in accordance with the offer selected in order to allow the creditors to vote the proposal as updated.

The discipline of Article 163-bis of IBL shall apply, mutatis mutandis, also to urgent and extraordinary acts that shall be authorized by the Court according to Article 161, seventh paragraph of IBL, and to the lease of one or more business units of the company.

QUESTIONS AND ANSWERS ON COMPETITIVE SALES IN COMPOSITIONWITH CREDITORS PROCEDURES (“CONCORDATO PREVENTIVO”)

1. Q.: Is the opening of the bid process mandatory for the Court according to Italian law?

A.: Yes.

The first question concerns whether or not the competitive bid process set forth by the Article 163-bis IBL is mandatory.

Article 163-bis IBL provides the Court to open on a mandatory basis the competitive bid process if the composition with creditors plan filed by the debtor includes a proposal by a third party to purchase the debtor’s assets or business units for a pre-determined price.

The answer is based on a literal interpretation of the Article 163-bis IBL, as finally introduced and amended by Law August 6, 2015, n. 132 and on the historical evolution of the rule its-self.

According to the original wording of Article 163-bis IBL (contained in Law Decree June 27, 2015, 83), the decision regarding the opening of the competitive bid was discretional and assigned to the judicial commissioner, which had to evaluate the fairness of the consideration for the debtor’s assets, as indicated in the third party’s proposal included in the composition with creditors filed before the Court. Hence, the judicial commissioner would have opened the competitive bid process only if the consideration offered by the third party was not consistent with the best creditors interest.

The current wording of Article 163-bis IBL, as amended by Law August 6, 2015, n. 132, do not provide any more for any discretionary power exercised by the judicial commissioner in order to open the competitive bid process, prescribing for a mandatory opening of such competitive bid process whenever debtor’s plan has already identify a third party, who has made an offer to buy, for valuable consideration, the company’s business, units or specific assets.

2. Q.: Is a third party’s proposal (to lease/purchase) included in the composition with creditors plan binding/irrevocable?

A.: Upon certain conditions and only until the issue of Court’s guide-lines

Article 163-bis, second paragraph, IBL provides that the Court issues a judicial decree in order to  set forth some guide-lines for the submission of the offers. The decree – which is the formal provision opening the competitive bid – is addressed to both the original offering party and other potential bidders.

Consequently, the original third party may modify its original offer accordingly and new bidders are required to do the same, submitting an offer consistent with Court’s requests.

The judicial decree issue determines the moment after which the original offering party cannot exit from the procedure, unless (of course) a new bidder will be then selected by the Court at the end of the process.

In light of the above:

  1. a third party may preliminary include in the composition with creditors an offer expressly providing that the offer will be revocable;
  2. the Court is then entitled by article 163-bis IBL to start a mandatory bid and to issue a judicial decree comprehensive of the guide-lines that must be followed for the submission of offers (e.g.: the minimum increase of the price determined in the first offer included in the Plan; guarantees, etc…). The guide-lines are directed to both the initial offering party and new potential bidders;
  3. at this point in the time the original offering party may (i) adapt its initial offer to the guidelines issued by the Court and participate in the bid process; or (ii) withdraw its initial offer and step back from the procedure.

3. Q.: has the initial third party offeror a “right to match” the offer presented by another bidder?

A.: No, since the Court will have discretionary power to identify which is the best offer.

The Court decree providing for the opening of the competitive bid procedure shall schedule the date of a public hearing during which competitive offers are disclosed and examined. The best offer is selected by the Court following a single, or further, public hearings.

The bid procedure shall be completed before the creditors’ meeting (“adunanza dei creditori”), in order to permit the creditors to vote only upon the plan inclusive of the best offer selected by the Court during the competitive bid procedure.

Should only one competitive offer be presented the Court shall decide whether the original (first) offer can be included in the debtor’s plan. However, should the Court consider the competitive offer better than the first offer, the debtor shall modify its initial rescue-plan to include the competitive offer. Therefore, creditors’ meeting shall vote upon the plan as amended.

Should more competitive offers be presented and the Court consider that more than one of them are better than the first offer included in the debtor’s initial plan, the Court shall open an auction among the bidders. Only one offer will be selected by the Court as the best offer for creditors’ interests.

Therefore, it seems that two equivalent bids cannot exist simultaneously. The Court must always identify, among the offers presented during the competitive bid procedure, which is the best for the creditors’ interests.

A pre-emption right on which the debtor and the initial offering party have agreed upon in the initial offer does not entitle the bidder to be preferred to its competitors. However, the Court might take into account the existence of a pre-emption right in favour of the original offering party, in order to decide which is the best offer.

Finally, it is worth noting that should the purchase be awarded to a bidder which is different from the original offering party, the latter will be released from all the obligations entered into with the debtor and the judicial commissioner will dispose the reimbursement of the expenses and costs incurred by the first bidder in regard to its offer, within the limit of three percent of the total price indicated in its offer.

4. Q.: shall an initial third party offeror have a “right to exit”, grounded on legal provisions, once it has been selected by the Court as the best offeror?

A.: No.

Should the initial offering party be selected and the debtor composition with creditors plan approved by creditors and, after that, approved by the Court, the debtor will have to duly execute the plan and any agreements entered into with the selected creditor will become effective.

The judicial commissioner is entitled by IBL to monitor the execution of the whole plan (inclusive of the contractual arrangements provided by it) according to the final approval by Court(see: art. 185  IBL).

IBL will not grant to the initial offering party selected as the best offeror with any right of exit. Therefore the initial offering party may only trust on contractual provisions included in the lease agreement (e.g.: advanced termination of the agreement or other remedies due to the breach of the debtor).

Con la legge di Stabilità del 2016, l’Italia è diventato il primo paese dell’UE a prevedere nel proprio ordinamento le Società Benefit. Questa nuova forma d’impresa nasce con l’intento di  coniugare obiettivi “profit”, tipici delle società commerciali, e obiettivi “non profit” di natura sociale  e/o ambientale di cui la società intende farsi carico ed è stata introdotta con l’intento di coniugare  crescita e sviluppo sostenibile.

 

La Società Benefit, infatti, attraverso previsioni statutarie, si vincola ad adottare determinate condotte ad alto valore sociale ponendosi, in questo modo, in linea di evoluzione rispetto alla responsabilità sociale d’impresa (“Corporate Social Responsibility”), intesa come quella politica di autoregolamentazione a cui la società stessa decide di sottoporsi, al fine di rendere etici la propria  mission e il proprio business model.

 

Ispirandosi alle Benefit Corporation statunitensi, il legislatore ha previsto l’introduzione, non già di un nuovo tipo societario, da aggiungere a quelli previsti al libro V, titoli V e VI del Codice Civile, ma la possibilità per i tipi societari già previsti di configurarsi come “SB” (Società Benefit).

 

La nuova disciplina, tuttavia, non prevede per le Società Benefit vantaggi specifici o deroghe espresse all’ordinaria disciplina di diritto societario. Sarà dunque il potenziale derivante dalla  possibilità di fregiarsi del titolo di “SB” e, in particolare, il collegato valore reputazionale che deriva  dalla considerazione di trasparenza legata a questo “marchio”, a determinare l’attrattiva verso questa  nuova qualifica.

 

Le Benefit Corporation devono essere volte al raggiungimento di una o più finalità di beneficio comune operando in modo responsabile, sostenibile e trasparente nei confronti di persone, comunità, territori, ambiente, beni e attività culturali e sociali, enti e associazioni e altri portatori d’interesse  (cfr. art. 1 comma 376, l. 208/2015).

 

Per perseguire questi scopi le Società Benefit devono, in particolare:

  1. indicare specificatamente nell’oggetto sociale e, quindi, nello statuto le finalità di beneficio comune (cfr. art. 1 comma 377, l. 208/2015);
  2. adottare uno standard di valutazione esterno al fine di valutare l’impatto che l’attività della società ha in termini di beneficio comune (cfr. art. 1 comma 378, l. 208/2015);
  3. orientare la responsabilità degli amministratori in modo da bilanciare l’interesse dei soci e il perseguimento di finalità di beneficio comune (cfr. art.1 comma 380, l. 208/2015);
  4. allegare al bilancio societario, con cadenza annuale, una relazione concernente il perseguimento del beneficio comune che includa: (i) la descrizione degli obiettivi specifici, (ii) la valutazione dell’impatto generato e (iii) la descrizione dei nuovi obiettivi (cfr. art.1 comma 382, l. 208/2015).

 

La Società Benefit che non persegua le finalità di beneficio comune è soggetta alle norme in materia di pubblicità ingannevole (d.lgs. 145/2007) e alle disposizioni del codice del consumo (d.lgs. 206/2005); il compito di valutare il comportamento tenuto alla luce degli impegni assunti e degli  standard applicati è svolto dall’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato che è dotata di pieni  poteri in quanto ente responsabilizzato a vigilare sull’effettiva applicazione delle finalità di  beneficio comune (cfr. art.1 comma 384, l. 208/2015).

 

 

Matteo L. Vitali – Agostino Contini

Con il referendum consultivo del 23 giugno 2016, il Regno Unito ha votato di lasciare l’UE. Il Primo ministro Theresa May e il governo inglese hanno annunciato di voler utilizzare le prerogative  reali (“Royal prerogative”) per azionare il meccanismo previsto dall’art. 50 del TFUE che permette il  recesso volontario e unilaterale di un paese dall’Unione Europea.

 

L’Alta Corte britannica ha sentenziato che la posizione assunta dall’esecutivo non trova nessuna giustificazione legale. L’utilizzo delle prerogative reali, infatti, permetterebbe di azionare il  procedimento previsto dall’art. 50 TFUE senza la preventiva autorizzazione del parlamento che  secondo l’Alta Corte, invece, risulta indispensabile. Il governo ha confermato di voler appellare la  decisione alla Corte Suprema.

 

L’economia globale ha risentito degli effetti della Brexit; tutte le linee guida del passato, infatti, non sono più valide e in questo contesto di profonda incertezza gli avvocati sono chiamati a  esaminare i contratti dei loro clienti al fine di garantire che tutte le disposizioni e le garanzie previste  negli stessi rimangano valide ed efficaci anche dopo l’uscita del Regno Unito dall’UE.

 

Tra le tante clausole che dovranno essere controllate e modificate ci sono, sicuramente, quelle che prevedono la legge inglese come legge applicabile. Queste previsioni, che allo stato attuale  ricomprendono anche il diritto dell’UE, dopo la Brexit non presenteranno più quest’automatico rinvio.  Gli avvocati, quindi, sono chiamati a modificare queste clausole stabilendo espressamente se nella  stesse sia ricompreso o meno anche il diritto dell’UE.

 

Anche le clausole riguardanti l’ambito territoriale presenti, ad esempio, nei contratti di distribuzione, franchising e licenza dovranno essere riconsiderate. Dopo la Brexit, infatti, i rapporti tra Regno Unito e stati dell’Unione Europea sarà influenzato dai negoziati che UK e UE porteranno a termine. Proprio a causa di questa situazione di grande incertezza, le parti, dovrebbero essere  chiamate a riconsiderare tali clausole, modificando i contratti che le prevedono e chiarendo le loro  posizioni.

 

La situazione di incertezza manifesta i propri effetti anche sulle clausole che stabiliscono il prezzo d’acquisto e il valore del contratto. Anche relativamente a queste previsioni, quindi, sarà opportuno  porre in essere modifiche, prevedendo, ad esempio, mutamenti di prezzo o valuta, che potranno  essere condizionati sospensivamente al raggiungimento di determinati soglie da parte della valuta  in uso.

 

Gli avvocati dovrebbero controllare i contratti contenti clausole che prevedono eventualità di forza maggiore e variazioni negative sostanziali; le stesse infatti potrebbero essere azionate dalla  Brexit. Sarà compito dei legali, quindi, stabilire se, e in quali casi, questa eventualità sia prospettabile,  modificando, nel caso, i contratti.

 

La Brexit, infine, potrebbe avere ripercussioni anche sulla capacità delle parti di far valere un contratto inglese nei rimanenti stati dell’UE. I legali impegnati a strutturare i termini dei nuovi contratti dovranno considerare questa eventualità strutturando gli accordi in modo che gli stessi non siano influenzati dagli eventuali effetti della Brexit.

 

Gli avvocati, in definitiva, hanno molto (lavoro) da fare; nuove opportunità potrebbero sorgere e i centri economici dell’Europa potrebbero cambiare. Secondo il Financial Times, sull’onda della Brexit, Milano, la città italiana più orientata al business, potrebbe predisporre una zona “tax free” per attrarre investitori e competere con Londra.

 

 

Matteo L. Vitali – Agostino Contini

1.      La diffusione della fattispecie

Nell’ambito dei negozi traslativi della proprietà uno dei rischi principali consiste nella circostanza che il bene oggetto d’acquisto non presenti le caratteristiche dichiarate dal venditore: è in questa logica che si giustificano i rimedi previsti dalla disciplina civilistica a favore dell’acquirente per i vizi e le difformità dei beni acquistati nell’ambito di un contratto di compravendita.

Tuttavia, i contratti di acquisizione di partecipazioni sociali (c.d. “sale and purchase agreement” o “SPA”) presentano alcuni profili peculiari. Infatti, secondo un orientamento giurisprudenziale ormai consolidato, un contratto di compravendita di partecipazioni ha quale oggetto immediato le partecipazioni sociali e solo quale oggetto mediato gli elementi del patrimonio sociale che queste rappresentano. Ne consegue che l’acquirente può esercitare i rimedi civilistici previsti per il caso di vizi e mancanza di qualità della cosa venduta (artt. 1490 e ss.) solo se i vizi e le difformità hanno riguardato le partecipazioni sociali e non, invece, il patrimonio sociale e gli elementi che lo compongono. In assenza di espresse dichiarazioni e garanzie rilasciate dal venditore circa la consistenza patrimoniale della società, dunque, l’acquirente non può beneficiare di alcuna protezione in tale senso. Per tale ragione, nei contratti di acquisizione di partecipazioni sociali il venditore, generalmente, rilascia dichiarazioni e garanzie molto specifiche in merito, tra l’altro, alla consistenza patrimoniale della società, alla veridicità dei dati contabili, economici e finanziari, all’assenza di violazioni normative o regolamentari (c.d. “representations and warranties”). I medesimi contratti, solitamente, disciplinano anche l’obbligo di indennizzo del venditore per il caso in cui tali dichiarazioni e garanzie non siano conformi al vero.

Al fine di ridurre ulteriormente il rischio in capo all’acquirente, le parti possono anche prevedere che, per un certo periodo di tempo, una parte del prezzo rimanga depositata su un conto corrente vincolato (c.d. “escrow account”): ciò non solo per soddisfare il riconoscimento in capo al venditore di eventuali ulteriori somme, a complemento del prezzo, a titolo di earn-out – ma altresì a garanzia delle obbligazioni di indennizzo assunte dallo stesso venditore. Risponde alle medesime esigenze la prassi che vede il venditore prestare una fideiussione che il compratore può escutere qualora subisca un danno legato alla non veridicità delle dichiarazioni e delle garanzie presenti nello SPA.

Un ulteriore strumento per mitigare i rischi in capo all’acquirente è rappresentato dalla stipula di una polizza assicurativa contro i danni derivanti dall’inesattezza delle dichiarazioni e garanzie previste nel contratto di compravendita delle partecipazioni sociali (c.d. “R&W insurance” o polizze “warranty & indemnity”). Si tratta in particolare di uno strumento di limitazione del rischio già impiegato all’estero – in particolare nelle giurisdizioni di tradizione anglosassone – e in via di diffusione anche in Italia con riguardo alle operazioni di acquisizione di partecipazioni societarie.

2.      L’ambito di applicazione

Tali polizze possono essere stipulate sia dal venditore sia dal compratore:

  1. nel primo caso, il venditore trasferisce il rischio in capo a un soggetto terzo che, a fronte del pagamento di un premio, assume l’obbligo di tenere indenne il compratore per i danni conseguenti all’inesattezza delle dichiarazioni e garanzie presenti nel contratto, purché tali danni eccedano l’importo della franchigia prevista dalla polizza (generalmente compresa tra l’1%-3% del prezzo pattuito per l’acquisto delle partecipazioni sociali). I vantaggi per il venditore sono evidenti: egli, infatti, dovendo indennizzare il compratore solamente per i danni inferiori all’ammontare della franchigia, beneficia di una notevole limitazione della propria responsabilità per l’inesattezza di quanto dichiarato e garantito. A ciò si aggiunga che, grazie alla stipulazione della polizza in esame, il venditore può evitare che una parte del prezzo resti vincolata nell’escrow account potendo, di conseguenza, godere immediatamente delle somme rappresentate dal prezzo di vendita i;
  2. nel secondo caso, invece, è l’acquirente a stipulare una R&W insurance che, in tale prospettiva, potrebbe rivelarsi un utile strumento al fine di ottenere garanzie convenzionali particolarmente ampie da parte del venditore. Infatti, qualora il compratore dovesse stipulare una polizza “warranty & indemmity”, il venditore beneficerebbe di una significativa limitazione della propria responsabilità per il caso in cui le dichiarazioni rese e le garanzie prestate ai sensi dello SPA non fossero conformi al vero, con la conseguenza che egli potrebbe essere meno interessato a portare avanti una serrata trattativa al riguardo (ma, anche in questo caso, la R&W insurance potrebbe prevedere una soglia di danno non indennizzabile da parte della compagnia di assicurazione – pari all’1%-3% del valore dell’acquisizione – che, generalmente, lo SPA pone a esclusivo carico del venditore). Si consideri inoltre che, grazie a una polizza “warranty & indemmity”, il compratore potrebbe riuscire a perfezionare l’acquisizione a un prezzo complessivamente inferiore rispetto a quello dovuto in assenza di assicurazione. Infatti, il prezzo offerto in questo caso, pur scontando i costi dell’assicurazione, apparirebbe comunque vantaggioso per il venditore che, come anticipato, finirebbe per assumere una responsabilità risarcitoria decisamente ridotta.

3.      Polizze assicurative, dinamiche e tempistiche negoziali

In ogni caso, la stipulazione di una polizza “warranty & indemmity” – sia che avvenga su iniziativa del venditore sia che veda, quale parte, il compratore – potrebbe offrire il vantaggio di ridurre i tempi di negoziazione del contratto di acquisizione delle partecipazioni sociali. Il venditore sarà infatti meno interessato a negoziare i termini e le condizioni delle garanzie convenzionali, potendo essere ritenuto responsabile entro limiti inferiori rispetto a quelli che potrebbero essere pattuiti in assenza di polizza.

È bene tenere presente che, al fine di ridurre effettivamente le tempistiche delle trattative, sarebbe sempre opportuno coinvolgere sin dal principio delle negoziazioni la compagnia di assicurazione: solo in questo modo, infatti, quest’ultima potrà prendere parte all’attività di due diligence e acquisire tempestivamente un quadro più approfondito dell’operazione in modo tale da poter predisporre in tempi rapidi una bozza della polizza da sottoporre all’assicurato. Il ritardo nel coinvolgere la compagnia di

assicurazione, al contrario, potrebbe rappresentare un ostacolo per una spedita prosecuzione delle trattative, soprattutto quando le parti hanno già raggiunto un accordo sulle previsioni dello SPA. In tal caso, infatti, si registra una scarsa flessibilità da parte delle compagnie di assicurazione a modificare la propria bozza di polizza e ciò, inevitabilmente, comporta un allungamento dei tempi per la finalizzazione dell’operazione.

Malgrado i vantaggi di cui si è detto, le polizze “warranty & indemmity” non coprono tutti i rischi correlati all’inesattezza delle dichiarazioni rese e delle garanzie prestate dal venditore nello SPA, pur avendo generalmente la medesima durata di queste ultime. Di norma, infatti, sono escluse le representations and warranties dal contenuto particolarmente generico (ad es., la garanzia relativa al rispetto di leggi e regolamenti) e le garanzie di redditività futura; allo stesso modo, non sono assicurabili i danni consistenti nelle sanzioni (penali o amministrative) derivanti dalla violazione delle garanzie rilasciate ai sensi dello SPA. Pertanto, l’assicurato – sia esso il venditore o l’acquirente – deve valutare attentamente il contenuto della polizza e negoziarne i termini e le condizioni in modo tale che siano ben coordinati con le previsioni dell’accordo di compravendita delle partecipazioni sociali.

4.      Conclusioni: il mercato assicurativo e la diffusione delle polizze “W&I”

Sulla scorta delle considerazioni che precedono, si può ritenere che la stipula una polizza “warranty & indemmity” possa rivelarsi un utile strumento per il compratore al fine di limitare i rischi connessi a un’operazione di acquisizione di partecipazioni sociali, dato che consente ex ante di allocarli in capo a un soggetto terzo, cui conseguirebbe l’indubbio vantaggio rappresentato da una potenzialmente significativa riduzione dei tempi per la negoziazione del contratto di compravendita. Tuttavia, anche in presenza di una R&W insurance, è opportuno che il compratore esegua un’approfondita attività di due diligence, soprattutto al fine di valutare la congruità della protezione offerta dalla polizza, cercando di negoziare e coordinare al meglio le garanzie previste nello SPA e quelle previste nella polizza.

Occorre in ogni caso rilevare che nella prassi del mercato dell’M&A italiano le polizze “warranty & indemmity” non sono ancora molto diffuse: risulta infatti che siano state impiegate solo nel 7% delle acquisizioni inferiori ai 25 milioni, sebbene si registri un discreto aumento nelle operazioni di maggior valore (sino al 20% nei deal superiori ai 100 milioni di Euro). Tale aumento si giustifica essenzialmente alla luce dei costi delle polizze in discorso, che sono tali da renderle particolarmente convenienti soprattutto nel contesto di operazioni dal rilevante valore economico. Generalmente, infatti, la compagnia di assicurazione, per svolgere l’attività necessaria ai fini della predisposizione della prima bozza di polizza, richiede il pagamento anticipato di una commissione che, sebbene sia variabile in funzione della complessità dell’operazione, è compresa tra Euro 10.000 ed Euro 50.000; il costo complessivo della polizza, invece, è compreso tra il 2% e il 5% del massimale. In ragione della (ancora) scarsa diffusione delle polizze “warranty & indemmity” nel mercato dell’M&A nazionale, (per il momento) sembrerebbero non esservi compagnie di assicurazione italiane ad offrirle. Ciononostante, per via dei numerosi vantaggi di cui si è sinteticamente cercato di dare conto, è diffusa l’opinione secondo cui le polizze “warranty & indemmity” si svilupperanno in modo significativo anche nel nostro Paese: è solo una questione di tempo.

Chiara Langè – Matteo Miramondi