1.      La diffusione della fattispecie

Nell’ambito dei negozi traslativi della proprietà uno dei rischi principali consiste nella circostanza che il bene oggetto d’acquisto non presenti le caratteristiche dichiarate dal venditore: è in questa logica che si giustificano i rimedi previsti dalla disciplina civilistica a favore dell’acquirente per i vizi e le difformità dei beni acquistati nell’ambito di un contratto di compravendita.

Tuttavia, i contratti di acquisizione di partecipazioni sociali (c.d. “sale and purchase agreement” o “SPA”) presentano alcuni profili peculiari. Infatti, secondo un orientamento giurisprudenziale ormai consolidato, un contratto di compravendita di partecipazioni ha quale oggetto immediato le partecipazioni sociali e solo quale oggetto mediato gli elementi del patrimonio sociale che queste rappresentano. Ne consegue che l’acquirente può esercitare i rimedi civilistici previsti per il caso di vizi e mancanza di qualità della cosa venduta (artt. 1490 e ss.) solo se i vizi e le difformità hanno riguardato le partecipazioni sociali e non, invece, il patrimonio sociale e gli elementi che lo compongono. In assenza di espresse dichiarazioni e garanzie rilasciate dal venditore circa la consistenza patrimoniale della società, dunque, l’acquirente non può beneficiare di alcuna protezione in tale senso. Per tale ragione, nei contratti di acquisizione di partecipazioni sociali il venditore, generalmente, rilascia dichiarazioni e garanzie molto specifiche in merito, tra l’altro, alla consistenza patrimoniale della società, alla veridicità dei dati contabili, economici e finanziari, all’assenza di violazioni normative o regolamentari (c.d. “representations and warranties”). I medesimi contratti, solitamente, disciplinano anche l’obbligo di indennizzo del venditore per il caso in cui tali dichiarazioni e garanzie non siano conformi al vero.

Al fine di ridurre ulteriormente il rischio in capo all’acquirente, le parti possono anche prevedere che, per un certo periodo di tempo, una parte del prezzo rimanga depositata su un conto corrente vincolato (c.d. “escrow account”): ciò non solo per soddisfare il riconoscimento in capo al venditore di eventuali ulteriori somme, a complemento del prezzo, a titolo di earn-out – ma altresì a garanzia delle obbligazioni di indennizzo assunte dallo stesso venditore. Risponde alle medesime esigenze la prassi che vede il venditore prestare una fideiussione che il compratore può escutere qualora subisca un danno legato alla non veridicità delle dichiarazioni e delle garanzie presenti nello SPA.

Un ulteriore strumento per mitigare i rischi in capo all’acquirente è rappresentato dalla stipula di una polizza assicurativa contro i danni derivanti dall’inesattezza delle dichiarazioni e garanzie previste nel contratto di compravendita delle partecipazioni sociali (c.d. “R&W insurance” o polizze “warranty & indemnity”). Si tratta in particolare di uno strumento di limitazione del rischio già impiegato all’estero – in particolare nelle giurisdizioni di tradizione anglosassone – e in via di diffusione anche in Italia con riguardo alle operazioni di acquisizione di partecipazioni societarie.

2.      L’ambito di applicazione

Tali polizze possono essere stipulate sia dal venditore sia dal compratore:

  1. nel primo caso, il venditore trasferisce il rischio in capo a un soggetto terzo che, a fronte del pagamento di un premio, assume l’obbligo di tenere indenne il compratore per i danni conseguenti all’inesattezza delle dichiarazioni e garanzie presenti nel contratto, purché tali danni eccedano l’importo della franchigia prevista dalla polizza (generalmente compresa tra l’1%-3% del prezzo pattuito per l’acquisto delle partecipazioni sociali). I vantaggi per il venditore sono evidenti: egli, infatti, dovendo indennizzare il compratore solamente per i danni inferiori all’ammontare della franchigia, beneficia di una notevole limitazione della propria responsabilità per l’inesattezza di quanto dichiarato e garantito. A ciò si aggiunga che, grazie alla stipulazione della polizza in esame, il venditore può evitare che una parte del prezzo resti vincolata nell’escrow account potendo, di conseguenza, godere immediatamente delle somme rappresentate dal prezzo di vendita i;
  2. nel secondo caso, invece, è l’acquirente a stipulare una R&W insurance che, in tale  prospettiva, potrebbe rivelarsi un utile strumento al fine di ottenere garanzie convenzionali particolarmente ampie da parte del venditore. Infatti, qualora il compratore dovesse stipulare una polizza “warranty & indemmity”, il venditore beneficerebbe di una significativa limitazione della propria responsabilità per il caso in cui le dichiarazioni rese e le garanzie prestate ai  sensi dello SPA non fossero conformi al vero, con la conseguenza che egli potrebbe essere meno interessato a portare avanti una serrata trattativa al riguardo (ma, anche in questo caso, la R&W insurance potrebbe prevedere una soglia di danno non indennizzabile da parte della compagnia di assicurazione – pari all’1%-3% del valore dell’acquisizione – che, generalmente, lo SPA pone a esclusivo carico del venditore). Si consideri inoltre che, grazie a una polizza “warranty & indemmity”, il compratore potrebbe riuscire a perfezionare l’acquisizione a un prezzo complessivamente inferiore rispetto a quello dovuto in assenza di assicurazione. Infatti, il prezzo offerto in questo caso, pur scontando i costi dell’assicurazione, apparirebbe comunque vantaggioso per il venditore che, come anticipato, finirebbe per assumere una responsabilità risarcitoria decisamente ridotta.

3.      Polizze assicurative, dinamiche e tempistiche negoziali

In ogni caso, la stipulazione di una polizza “warranty & indemmity” – sia che avvenga su iniziativa del venditore sia che veda, quale parte, il compratore – potrebbe offrire il vantaggio di ridurre i tempi di negoziazione del contratto di acquisizione delle partecipazioni sociali. Il venditore sarà infatti meno interessato a negoziare i termini e le condizioni delle garanzie convenzionali, potendo essere ritenuto responsabile entro limiti inferiori rispetto a quelli che potrebbero essere pattuiti in assenza di polizza.

È bene tenere presente che, al fine di ridurre effettivamente le tempistiche delle trattative, sarebbe sempre opportuno coinvolgere sin dal principio delle negoziazioni la compagnia di assicurazione: solo in questo modo, infatti, quest’ultima potrà prendere parte all’attività di due diligence e acquisire tempestivamente un quadro più approfondito dell’operazione in modo tale da poter predisporre in tempi rapidi una bozza della polizza da sottoporre all’assicurato. Il ritardo nel coinvolgere la compagnia di

assicurazione, al contrario, potrebbe rappresentare un ostacolo per una spedita prosecuzione delle trattative, soprattutto quando le parti hanno già raggiunto un accordo sulle previsioni dello SPA. In tal caso, infatti, si registra una scarsa flessibilità da parte delle compagnie di assicurazione a modificare la propria bozza di polizza e ciò, inevitabilmente, comporta un allungamento dei tempi per la finalizzazione dell’operazione.

Malgrado i vantaggi di cui si è detto, le polizze “warranty & indemmity” non coprono tutti i rischi correlati all’inesattezza delle dichiarazioni rese e delle garanzie prestate dal venditore nello SPA, pur avendo generalmente la medesima durata di queste ultime. Di norma, infatti, sono escluse le representations and warranties dal contenuto particolarmente generico (ad es., la garanzia relativa al rispetto di leggi e regolamenti) e le garanzie di redditività futura; allo stesso modo, non sono assicurabili i danni consistenti nelle sanzioni (penali o amministrative) derivanti dalla violazione delle garanzie rilasciate ai sensi dello SPA. Pertanto, l’assicurato – sia esso il venditore o l’acquirente – deve valutare attentamente il contenuto della polizza e negoziarne i termini e le condizioni in modo tale che siano ben coordinati con le previsioni dell’accordo di compravendita delle partecipazioni sociali.

4.      Conclusioni: il mercato assicurativo e la diffusione delle polizze “W&I”

Sulla scorta delle considerazioni che precedono, si può ritenere che la stipula una polizza “warranty & indemmity” possa rivelarsi un utile strumento per il compratore al fine di limitare i rischi connessi a un’operazione di acquisizione di partecipazioni sociali, dato che consente ex ante di allocarli in capo a un soggetto terzo, cui conseguirebbe l’indubbio vantaggio rappresentato da una potenzialmente significativa riduzione dei tempi per la negoziazione del contratto di compravendita. Tuttavia, anche in presenza di una R&W insurance, è opportuno che il compratore esegua un’approfondita attività di due diligence, soprattutto al fine di valutare la congruità della protezione offerta dalla polizza, cercando di negoziare e coordinare al meglio le garanzie previste nello SPA e quelle previste nella polizza.

Occorre in ogni caso rilevare che nella prassi del mercato dell’M&A italiano le polizze “warranty & indemmity” non sono ancora molto diffuse: risulta infatti che siano state impiegate solo nel 7% delle acquisizioni inferiori ai 25 milioni, sebbene si registri un discreto aumento nelle operazioni di maggior valore (sino al 20% nei deal superiori ai 100 milioni di Euro). Tale aumento si giustifica essenzialmente alla luce dei costi delle polizze in discorso, che sono tali da renderle particolarmente convenienti soprattutto nel contesto di operazioni dal rilevante valore economico. Generalmente, infatti, la compagnia di assicurazione, per svolgere l’attività necessaria ai fini della predisposizione della prima bozza di polizza, richiede il pagamento anticipato di una commissione che, sebbene sia variabile in funzione della complessità dell’operazione, è compresa tra Euro 10.000 ed Euro 50.000; il costo complessivo della polizza, invece, è compreso tra il 2% e il 5% del massimale. In ragione della (ancora) scarsa diffusione delle polizze “warranty & indemmity” nel mercato dell’M&A nazionale, (per il momento) sembrerebbero non esservi compagnie di assicurazione italiane ad offrirle. Ciononostante, per via dei numerosi vantaggi di cui si è sinteticamente cercato di dare conto, è diffusa l’opinione secondo cui le polizze “warranty & indemmity” si svilupperanno in modo significativo anche nel nostro Paese: è solo una questione di tempo.

Chiara Langè – Matteo Miramondi

On June 23, 2016, UK has voted to leave the EU. Prime Minister Theresa May and the UK government announced that they would use the Crown’s prerogative powers to trigger Article 50 TFUE. The use of such prerogative would allow the government to trigger Article 50 without the approval of the UK parliament.

In response to the above, the UK High Court has drafted a ruling stating that the government’s position had no basis in law. The High Court found that any trigger of Article 50 requires parliament to vote on such matter. The government has confirmed that it will seek to appeal the judgment to the UK Supreme Court.

After Brexit and its last developments, the economy all over the world is in a massive flux, the previously established guidelines have been thrown out of the window. In such context of uncertainty, attorneys have a lot of work to do: indeed, they have to examine their clients’ contracts in order to ensure that representations, warranties and other provisions remain true after Brexit.

For this purpose, contract lawyers have to check, among the many, the clauses providing “English law” as governing-law. Such provisions are currently interpreted as including also EU law; this would no longer be the case after Brexit. Lawyers should consider to amend agreements that provide English law as governing law by explicitly including or excluding references to EU law, directives and EU regulations as well.

Lawyers must also take into account, territorial provisions that are, for example, included in distribution, franchise and license agreements. The effects of Brexit on these provisions will depend on the outcome of negotiations between UK and EU. This situation is likely to give rise to great uncertainty, and parties should be forced to change their contracts in order to clarify their position by amending those agreements.

In addition, purchase prices and clauses regarding contracts value and invoicing, have become uncertain. Therefore, parties should consider to amend agreements that contain these provisions to include clauses to reprice or switch currency if the currency applicable to the contract crosses certain thresholds.

Existing contracts may also include force majeure or material adverse change clauses that could be triggered by Brexit. Lawyers must check existing contracts for the definition and effects of a force majeure event or a material adverse change and ensure whether or not such clauses apply in light of Brexit.

Finally, Brexit might have an impact on a party’s ability to enforce a UK contract in the remaining EU states. Therefore, contract lawyers, in drafting or negotiating the terms of a new contract, have to consider how that contract might be affected by the UK’s eventual departures from EU and structure the agreement accordingly.

In conclusion, lawyers have a lot of work to do, new opportunities will arise and the economic centers of Europe could change. According to Financial Times, after Brexit, Milan, the most business focused city in Italy, is considering to set up a tax free zone, in order to attract businesses to rival London.

With the approval of Law December 28, 2015, no. 208 (“Law”), Italy has become the first UE country to adopt a specific regime for Benefit Corporations. The purpose of the lawmaker was to combine economic growth and sustainable development.

Inspired by the Americans Benefit Corporation, the Italian lawmaker did not introduce a new kind of company, but only introduced a peculiar qualification that may be adopted by any kind of company (“Società Benefit” – Benefit Corporation).

The Benefit Corporation purpose is to create a general public benefit, defined by the Law as a material positive impact on society and the environment, operating in a responsible, sustainable and transparent way (see art. 1, par. 376).

According to the Law, a Benefit Corporation has to:

  1. appoint specific public benefit purposes in the corporate by-laws (see 1, par. 377);
  2. adopt an external evaluative standard to assess the impact of the corporate business on the public benefit (see art. 1, par. 378);
  3. balance directors’ liability between partners’/shareholders’ interests and public  benefit purposes (see art. 1, 380);
  4. enclose in the balance sheet a report containing: (i) the description of the specific public benefit purposes, (ii) the evaluation of the impact generated by the Benefit Corporation on the public benefit purposes and (iii) the description of the new public benefit purposes (see art. 1, par. 382).

Benefit Corporations that do not pursue the public benefit purposes as provided by the by-laws is subject to the misleading advertising law (legislative decree 145/2007) and to the consumer code (legislative decree 206/2005). Furthermore, Italian antitrust authority (“Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato”) has been endowed with full power to supervise the activities that Benefit Companies put in place to reach social benefit purposes.

The recent reform of Italian Bankruptcy Law (“IBL”), by effect of Law Decree n. 83 of June 27, 2015, converted with amendments into Law n. 132 of August 6, 2015, introduced new institutes and rules to implement the efficiency of pre-insolvency procedures, with the aim to support the financing of distressed companies. This brief note describes and analyses the novelties introduced by the reform with specific regard to the new competitive sales in the procedures of composition with creditors (“concordato preventivo”), directed to maximize the value of the debtor’s assets and guarantee the creditors’ best interest and satisfaction.

New Article 163-bis of IBL provides that a financial plan of a “concordato preventivo” proposal (hereinafter, the “Plan”) including an offer by a designated third party to purchase all or part of the debtor’s assets or business units for a pre-determined price entitles the Court to look for other third parties interested in the purchase, providing the opening of a public and competitive bid procedure. The competitive procedure shall be opened even when the debtor has already entered into a binding contract for the (immediate or not immediate) transfer of the debtor’s company or of its business units or assets.

In particular, the Court shall open the mandatory bid procedure and issue a decree that determines the guidelines for the bid (the “Decree”). The Court’s decree shall provide: (i) procedure and criteria to present the competing offers, that shall be irrevocable; (ii) necessary requirements to participate to the auction; (iii) terms and time limits for bidders to access to the company’s relevant information; (iv) the date of the public hearing in which the offers will be disclosed and examined; (v) modalities and steps of the competitive procedure; (vi) warranties and guarantees which can be required to the bidders by the Court; (vii) forms of advertising of the competitive procedure; and (viii) the minimum increase of the price determined in the first offer included in the Plan.

The first offer included in the Plan will become irrevocable only when the same offer will be submitted again (modified and adapted) in accordance with the provisions of the Decree and the first bidder will grant the guarantee required by the Court.

All the offers shall be presented in secret form and comply with the provisions of the Decree and, in any case, shall not be subjected to conditions.

At the public hearing fixed in the Decree the offers are disclosed, made public and examined at the presence of the bidders and of all other interested parties.

When are presented new offers which are better than the first offer (“offerte migliorative”), the Court shall open an auction among the bidders. The auction can take place at the same hearing or in a immediately following hearing and shall be completed before the creditors’ meeting (“adunanza dei creditori” provided by Article 163 of the IBL for voting the Plan submitted by the debtor). The transfer of the auctioned assets or business units can take place also before the approval by the Court of the “concordato preventivo” (“decreto di omologazione”).

In any case, when the purchase is awarded to a bidder which is different from the bidder who presented the first offer included into Plan, the first bidder will be released from all the obligations entered into with the debtor and the judicial commissioner will dispose the reimbursement of the expenses and costs incurred by the first bidder in relation to its offer, within the limit of three percent of the total price indicated in the said offer.

When the bid process is completed and the best offer selected, the debtor shall amend the Plan in accordance with the offer selected in order to allow the creditors to vote the proposal as updated.

The discipline of Article 163-bis of IBL shall apply, mutatis mutandis, also to urgent and extraordinary acts that shall be authorized by the Court according to Article 161, seventh paragraph of IBL, and to the lease of one or more business units of the company.

QUESTIONS AND ANSWERS ON COMPETITIVE SALES IN COMPOSITIONWITH CREDITORS PROCEDURES (“CONCORDATO PREVENTIVO”)

1. Q.: Is the opening of the bid process mandatory for the Court according to Italian law?

A.: Yes.

The first question concerns whether or not the competitive bid process set forth by the Article 163-bis IBL is mandatory.

Article 163-bis IBL provides the Court to open on a mandatory basis the competitive bid process if the composition with creditors plan filed by the debtor includes a proposal by a third party to purchase the debtor’s assets or business units for a pre-determined price.

The answer is based on a literal interpretation of the Article 163-bis IBL, as finally introduced and amended by Law August 6, 2015, n. 132 and on the historical evolution of the rule its-self.

According to the original wording of Article 163-bis IBL (contained in Law Decree June 27, 2015, 83), the decision regarding the opening of the competitive bid was discretional and assigned to the judicial commissioner, which had to evaluate the fairness of the consideration for the debtor’s assets, as indicated in the third party’s proposal included in the composition with creditors filed before the Court. Hence, the judicial commissioner would have opened the competitive bid process only if the consideration offered by the third party was not consistent with the best creditors interest.

The current wording of Article 163-bis IBL, as amended by Law August 6, 2015, n. 132, do not provide any more for any discretionary power exercised by the judicial commissioner in order to open the competitive bid process, prescribing for a mandatory opening of such competitive bid process whenever debtor’s plan has already identify a third party, who has made an offer to buy, for valuable consideration, the company’s business, units or specific assets.

2. Q.: Is a third party’s proposal (to lease/purchase) included in the composition with creditors plan binding/irrevocable?

A.: Upon certain conditions and only until the issue of Court’s guide-lines

Article 163-bis, second paragraph, IBL provides that the Court issues a judicial decree in order to  set forth some guide-lines for the submission of the offers. The decree – which is the formal provision opening the competitive bid – is addressed to both the original offering party and other potential bidders.

Consequently, the original third party may modify its original offer accordingly and new bidders are required to do the same, submitting an offer consistent with Court’s requests.

The judicial decree issue determines the moment after which the original offering party cannot exit from the procedure, unless (of course) a new bidder will be then selected by the Court at the end of the process.

In light of the above:

  1. a third party may preliminary include in the composition with creditors an offer expressly providing that the offer will be revocable;
  2. the Court is then entitled by article 163-bis IBL to start a mandatory bid and to issue a judicial decree comprehensive of the guide-lines that must be followed for the submission of offers (e.g.: the minimum increase of the price determined in the first offer included in the Plan; guarantees, etc…). The guide-lines are directed to both the initial offering party and new potential bidders;
  3. at this point in the time the original offering party may (i) adapt its initial offer to the guidelines issued by the Court and participate in the bid process; or (ii) withdraw its initial offer and step back from the procedure.

3. Q.: has the initial third party offeror a “right to match” the offer presented by another bidder?

A.: No, since the Court will have discretionary power to identify which is the best offer.

The Court decree providing for the opening of the competitive bid procedure shall schedule the date of a public hearing during which competitive offers are disclosed and examined. The best offer is selected by the Court following a single, or further, public hearings.

The bid procedure shall be completed before the creditors’ meeting (“adunanza dei creditori”), in order to permit the creditors to vote only upon the plan inclusive of the best offer selected by the Court during the competitive bid procedure.

Should only one competitive offer be presented the Court shall decide whether the original (first) offer can be included in the debtor’s plan. However, should the Court consider the competitive offer better than the first offer, the debtor shall modify its initial rescue-plan to include the competitive offer. Therefore, creditors’ meeting shall vote upon the plan as amended.

Should more competitive offers be presented and the Court consider that more than one of them are better than the first offer included in the debtor’s initial plan, the Court shall open an auction among the bidders. Only one offer will be selected by the Court as the best offer for creditors’ interests.

Therefore, it seems that two equivalent bids cannot exist simultaneously. The Court must always identify, among the offers presented during the competitive bid procedure, which is the best for the creditors’ interests.

A pre-emption right on which the debtor and the initial offering party have agreed upon in the initial offer does not entitle the bidder to be preferred to its competitors. However, the Court might take into account the existence of a pre-emption right in favour of the original offering party, in order to decide which is the best offer.

Finally, it is worth noting that should the purchase be awarded to a bidder which is different from the original offering party, the latter will be released from all the obligations entered into with the debtor and the judicial commissioner will dispose the reimbursement of the expenses and costs incurred by the first bidder in regard to its offer, within the limit of three percent of the total price indicated in its offer.

4. Q.: shall an initial third party offeror have a “right to exit”, grounded on legal provisions, once it has been selected by the Court as the best offeror?

A.: No.

Should the initial offering party be selected and the debtor composition with creditors plan approved by creditors and, after that, approved by the Court, the debtor will have to duly execute the plan and any agreements entered into with the selected creditor will become effective.

The judicial commissioner is entitled by IBL to monitor the execution of the whole plan (inclusive of the contractual arrangements provided by it) according to the final approval by Court(see: art. 185  IBL).

IBL will not grant to the initial offering party selected as the best offeror with any right of exit. Therefore the initial offering party may only trust on contractual provisions included in the lease agreement (e.g.: advanced termination of the agreement or other remedies due to the breach of the debtor).

1. Premessa

Un problema a lungo dibattuto in giurisprudenza è quello relativo ai profili di responsabilità degli amministratori di società di capitali fallite nel caso in cui il giudizio sia promosso dal curatore fallimentare. Nello specifico, il punto di criticità verte sull’interrogativo per cui, in caso di mancata o irregolare tenuta delle scritture contabili imputabile all’amministratore, sia corretto ritenere che la liquidazione del danno debba essere effettuata sulla base del criterio della differenza tra l’attivo e il passivo accertati nell’ambito della procedura concorsuale. Sul tema sono recentemente intervenute le Sezioni Unite della Corte di Cassazione, con sentenza n. 9100 del 6 maggio 2015, fornendo un’interpretazione decisiva della problematica in esame tramite l’enunciazione di un preciso principio di diritto, secondo cui: “[…] la mancanza di scritture contabili della società, pur se addebitabile all’amministratore convenuto, di per sé sola non giustifica che il danno da risarcire sia individuato e liquidato in misura corrispondente alla differenza tra il passivo e l’attivo accertati in ambito fallimentare, potendo tale criterio essere utilizzato soltanto al fine della liquidazione equitativa del danno […]”.

Nella fattispecie in esame la Corte si era espressa in merito alla citazione in giudizio dinanzi al tribunale di Napoli, nel maggio del 2001, dell’amministratore unico di una s.r.l. fallita da parte del curatore del fallimento, con domanda di condanna al risarcimento dei danni subiti dalla società. In particolare, si lamentava che il convenuto non si fosse comportato con la dovuta diligenza, mancando di provvedere, tra le altre cose, alla tenuta dei libri sociali e alla redazione dei bilanci relativi agli anni 1994 e 1995, consentendo inoltre la distrazione di beni custoditi in locali della società e rendendosi quindi responsabile, a opinione del curatore, dello stato di insolvenza e del fallimento della società. La domanda di risarcimento veniva accolta in primo grado e confermata in appello, liquidando il danno nella misura pari alla differenza tra il passivo e l’attivo rilevati nell’ambito della procedura di fallimento della società.

Il ricorso in Cassazione da parte del convenuto e la replica con controricorso da parte dell’attore, a seguito del riscontro di un disallineamento nella giurisprudenza della Suprema Corte in materia, sono stati quindi assegnati alle Sezioni Unite.

2. La giurisprudenza della Cassazione

Come si è detto, la problematica in esame è relativa all’individuazione e liquidazione del danno nel caso di un’azione di responsabilità promossa dal curatore fallimentare nei confronti dell’amministratore della società fallita. In altre parole, ciò che si discute in giurisprudenza è se debba essere provato il nesso di causalità tra i comportamenti dell’amministratore, ad esempio la mancata tenuta dei libri contabili, e il preteso danno sul patrimonio della società fallita, nonché i criteri stessi di determinazione di quel danno.

Per un decennio la Suprema Corte si era dimostrata favorevole alla sussistenza della responsabilità in capo all’amministratore nella fattispecie in esame e all’impiego del sopracitato criterio di determinazione del danno. Tuttavia, negli anni successivi non sono mancate, da gran parte della dottrina, numerose critiche in merito all’adeguatezza di tale criterio, inducendo quindi la giurisprudenza a procedere a un ripensamento della tematica in oggetto. In effetti, le successive pronunce della Suprema Corte hanno escluso che siffatto criterio differenziale potesse essere impiegato nelle azioni di responsabilità ex art. 146 c. 2 l. fall., se non nel caso in cui il danno patrimoniale e il conseguente fallimento della società si fossero verificati per fatto imputabile agli amministratori. Conseguenza di questo orientamento è quindi la necessità non solo di provare la violazione degli obblighi e doveri a essi imposti per legge, ma, a maggior ragione, che da quelle violazioni fosse sorto il pregiudizio alla società.

Tale indirizzo si è poi confermato anche nelle successive giurisprudenze di legittimità, salvo qualche caso isolato in cui si è sostenuto che, nell’ipotesi in cui la prova del nesso di causalità tra la condotta degli amministratori e il pregiudizio subito fosse resa impossibile proprio dalla mancata o irregolare tenuta delle scritture contabili, allora si sarebbe dovuta verificare un’inversione dell’onere della prova dovendosi, inoltre, liquidare il danno nella misura della differenza tra l’attivo e il passivo.

In ogni caso, due sono le circostanze dalle quali si intuisce l’auspicabilità di un intervento delle Sezioni Unite a riguardo e, di conseguenza, l’attuale importanza della sentenza n. 9100 del 2015. Da un lato il fatto che, come si è visto, la giurisprudenza non fosse affatto unita sul punto, dall’altro, il rilievo che dei vari doveri che possono essere imposti dalla legge, dall’atto costitutivo e dallo statuto agli amministratori, non tutti presentino dei contorni nitidi e puntualmente specificati, rendendo necessaria una valutazione caso per caso delle conseguenze dannose scaturenti dalla violazione di siffatti obblighi.

Dello stesso avviso anche una parte minoritaria della dottrina, v. F. DEL VECCHIO, La responsabilità degli amministratori a norma dell’art. 146 comma 2 l. fall., in Giur. mer., 1990, III, 505 – 509. L’autore affermava infatti che il curatore non fosse tenuto a provare il nesso di causalità tra l’inadempimento e il danno nel caso in cui mancassero o fossero irregolari le scritture contabili, ritenendosi applicabile, per la quantificazione del danno, il criterio della differenza tra l’attivo e il passivo del fallimento.

3. La sentenza n. 9100 del 2015

Risulta quindi chiaro che, proprio in ragione della varietà dei doveri che gravano sull’amministratore, sia necessario per ogni fattispecie considerata fare chiarezza su quali di questi adempimenti siano quelli che si ritiene egli abbia violato. Questa indagine si pone certamente come propedeutica a quella di individuazione del danno e dei criteri per la sua quantificazione, nonché alle tematiche relative al nesso di causalità e alla ripartizione dell’onere della prova.

In effetti, questo sembra essere l’iter seguito dalle Sezioni Unite n. 9100 del 2015, le quali, innanzitutto, hanno richiamato il principio generale per cui il creditore che agisce in giudizio, sia per l’adempimento del contratto che per la risoluzione e il risarcimento del danno, ha l’onere di allegare l’inadempimento del convenuto (8). A tal riguardo risulta fondamentale allora il richiamo operato nei confronti delle Sezioni Unite n. 577 del 2008 per cui l’allegazione del creditore non può attenere a un semplice inadempimento, ma a un inadempimento qualificato, ossia astrattamente efficiente alla produzione del danno. Da ciò consegue che sull’attore gravi l’onere non solo di allegare, ma anche di provare gli altri elementi indispensabili per aversi responsabilità civile, ossia il danno e il nesso di causalità.

A seguito di questa doverosa premessa, ci si chiede, come detto, quali inadempimenti qualificati imputabili all’amministratore siano, quindi, astrattamente efficienti a produrre un danno corrispondente al deficit patrimoniale accumulato dalla società fallita e accertato in sede concorsuale. Tale ricerca sembra essere decisiva, perché solo nei confronti di simili inadempimenti pare ammissibile l’utilizzo del criterio della differenza tra l’attivo e il passivo, oggetto della nostra attenzione, accertati nell’ambito della procedura concorsuale. In questo senso, per usare le parole della Suprema Corte, inadempimenti rilevanti a tal fine “potrebbero essere soltanto quelle violazioni del dovere di diligenza nella gestione dell’impresa così generalizzate da far pensare che proprio a cagione di esse l’intero patrimonio sia stato eroso e si siano determinate le perdite registrate dal curatore, o comunque quei comportamenti che possano configurarsi come la causa stessa del dissesto sfociato nell’insolvenza”. È da ritenersi, allora, che in situazioni diverse da queste sarebbe mancante qualsiasi presupposto logico per l’applicazione del suddetto criterio. Una diversa impostazione avrebbe come conseguenza, infatti, l’allocazione del rischio di impresa e, quindi, del rischio di possibili perdite, automaticamente sulle spalle dell’amministratore, ritenendolo per questo responsabile del fallimento della società unicamente per il fatto che questo si sia verificato, il che pare francamente inammissibile.

Ciò detto, gli inadempimenti imputati all’amministratore nel caso di specie si riferivano alla distrazione di alcuni beni mobili custoditi in un magazzino della società, alla mancata redazione di due bilanci d’esercizio e delle relative dichiarazioni fiscali e, soprattutto, all’omessa tenuta della contabilità sociale. In effetti, nessuna di queste violazioni sembra essere in grado di generare nulla più che un maggior onere nell’espletamento dei compiti del curatore o, nella peggiore delle ipotesi, un aggravio nei costi della procedura concorsuale e, certamente, da esse non può derivare l’insolvenza o lo sbilancio patrimoniale della società divenuta insolvente, dato che, come lucidamente precisato dalla Suprema Corte, “la contabilità registra gli accadimenti economici che interessano l’attività dell’impresa, non li determina”.

A niente varrebbe il richiamo al principio della cosiddetta prossimità e vicinanza della prova, per cui opererebbe un’inversione dell’onere della prova ex art. 2697 c.c., giacché, posta l’incertezza dei confini applicativi di tale principio, la Corte rileva come questo non sia applicabile nel caso di specie, richiedendosi che l’inadempimento allegato dall’attore sia almeno astrattamente idoneo a porsi come causa del danno di cui si pretende il risarcimento, nesso che non può dirsi sussistente tra la mancata o irregolare tenuta delle scritture contabili e il deficit patrimoniale accertato in sede fallimentare.

4. Conclusioni

Alla luce di quanto precedentemente affermato, la Corte statuisce che il criterio di liquidazione del danno sulla base della differenza tra l’attivo e il passivo accertati in ambito fallimentare possa essere utilizzato soltanto ai fini della liquidazione equitativa del danno, “purché siano indicate le ragioni che non hanno permesso l’accertamento degli specifici effetti dannosi concretamente riconducibili alla condotta dell’amministratore e purché il ricorso a detto criterio si presenti logicamente plausibile in rapporto alle circostanze del caso concreto”.

Tale principio sembra ampiamente condivisibile, soprattutto in riferimento a quanto osservato dalla stessa Corte in un passaggio precedente. In effetti, una soluzione diversa da quella appena prospettata avrebbe l’effetto di attribuire al risarcimento del danno una funzione palesemente sanzionatoria, il che pare decisamente inammissibile, perlomeno fino a quando ciò non venga previsto espressamente da una norma di legge, così come richiesto dall’art 25 Cost., comma 2 e dall’art. 7 della Convenzione Europea sulla salvaguardia dei diritti dell’Uomo e delle libertà fondamentali.

Matteo L. Vitali

Lorenzo Bassignana

1. Premessa

Il Parlamento Europeo, con Risoluzione del 17 novembre 2011, aveva rilevato che le disparità tra le legislazioni nazionali in materia di insolvenza avrebbero potuto pregiudicare il buon esito delle operazioni di ristrutturazione delle imprese insolventi, favorendo peraltro il deprecabile fenomeno del c.d. forum shopping. Sotto altro profilo, il Parlamento Europeo, con il medesimo provvedimento, pur avendo preso atto dell’impossibilità di pervenire a un diritto sostanziale comune a tutti gli Stati membri in materia di insolvenza, aveva riscontrato l’esistenza di aree del diritto della crisi d’impresa in cui l’armonizzazione si sarebbe rivelata molto utile e di attuazione relativamente agevole.

Pertanto, il Parlamento Europeo aveva richiesto alla Commissione Europea di formulare una o più proposte legislative in materia fallimentare.

La Commissione Europea, dal canto suo, ha risposto a questa Risoluzione con due importanti iniziative: la prima consistente nella revisione del Regolamento CE n. 1346/2000 (riguardante il regime applicabile alle c.d. insolvenze transfrontaliere) e la seconda rappresentata dalla Raccomandazione del 12 marzo 2014 qui in esame.

Al riguardo, pare appena il caso di osservare che numerosi elementi contenuti nella Raccomandazione sono rinvenibili – in quanto già previsti – all’interno della legge fallimentare italiana e, in particolare, nel complesso di regole applicabili al concordato preventivo, oggetto in questi ultimi anni di interventi radicali e “ortopedici” del legislatore che ne hanno sensibilmente innovato la disciplina.

2. Ambito di applicazione e obiettivi

Occorre preliminarmente chiarire che la Raccomandazione qui analizzata non si applica alle imprese assicuratrici, agli enti creditizi, alle imprese di investimento e, più in generale, agli altri istituti finanziari soggetti a regimi speciali di risanamento e risoluzione delle crisi in cui le autorità di vigilanza nazionali godono di ampi poteri di intervento. Resta invece salva la facoltà dei legislatori nazionali di estendere l’applicazione dei principi espressi nella Raccomandazione anche nei confronti dei consumatori, benché essi non ne risultino esplicitamente i destinatari.

Con riferimento alle finalità perseguite, invece, il provvedimento adottato dalla Commissione Europea intende anzitutto favorire la ristrutturazione “precoce” delle imprese che si trovino ad affrontare una situazione di momentanea difficoltà finanziaria, in modo tale da impedirne l’insolvenza e scongiurare gli effetti negativi che da tale circostanza derivano, non solo per il debitore ma anche per i creditori e, più in generale, per il sistema economico-produttivo.

La Raccomandazione in esame mira altresì a favorire la c.d. “fresh start”, ossia «il reinserimento nel contesto economico degli imprenditori già assoggettati a procedura», sulla scia di alcuni dati statistici dell’Unione Europea i quali dimostrano che, tra gli imprenditori attualmente operanti con successo, il 18% aveva fallito il primo tentativo.

Secondo la Commissione Europea, tali obiettivi possono essere raggiunti unicamente mediante interventi ad hoc da parte dei legislatori nazionali che – in una prospettiva di armonizzazione fra i diversi ordinamenti degli Stati membri – siano finalizzati a «ridurre le divergenze e le inefficienze che ostacolano la ristrutturazione precoce di imprese sane in difficoltà finanziaria e la possibilità per gli imprenditori onesti di ottenere una seconda opportunità». A questo fine, il provvedimento in esame ha previsto «norme minime in materia di (a) quadri di ristrutturazione preventiva, e (b) liberazione dai debiti degli imprenditori falliti» alle quali gli Stati membri devono ispirarsi nell’attuazione della Raccomandazione.

3. Ristrutturazione preventiva

Per ciò che concerne più in particolare la ristrutturazione preventiva delle imprese in crisi, la Commissione Europea ha invitato gli Stati membri a predisporre un quadro normativo idoneo a consentire al debitore di accedere a misure e procedure di ristrutturazione «non appena sia evidente che sussiste probabilità di insolvenza», senza tuttavia che tale iniziativa comporti per il debitore in crisi una perdita del controllo diretto della gestione dell’impresa.

La Commissione Europea auspica altresì che la procedura di ristrutturazione sia strutturata in modo tale da svolgersi in tempi rapidi e con costi contenuti, limitando il ricorso al giudice nei soli casi in cui risulti effettivamente necessario e funzionale a una miglior tutela dei diritti dei creditori e dei terzi.

3.1. Sospensione delle azioni esecutive individuali e della procedura di insolvenza

La Commissione ha precisato che l’inizio delle operazioni di ristrutturazione dell’impresa in crisi non deve impedire al debitore di richiedere la sospensione temporanea delle azioni esecutive individuali proposte nei suoi confronti dai creditori, quand’anche questi ultimi siano titolari di un privilegio o di una garanzia. Peraltro, secondo le indicazioni della Commissione, in tale periodo di sospensione dovrebbero essere altresì sospesi sia l’obbligo per il debitore di presentare istanza per il proprio fallimento, sia la facoltà per i creditori di richiedere l’apertura della procedura di insolvenza nei confronti del debitore.

Tuttavia, allo scopo di garantire un giusto equilibrio tra gli interessi del debitore e quelli dei creditori, la durata della sospensione dovrebbe essere stabilita in funzione della complessità delle operazioni di ristrutturazione previste e, in ogni caso, non dovrebbe essere superiore a quattro mesi.

Appare evidente che le previsioni normative appena menzionate si fondino sul convincimento che il risanamento delle imprese in crisi sia un valore da tutelare e, per tale ragione, la Commissione ha inteso evitare che il buon esito delle operazioni di ristrutturazione e i benefici che ne conseguono possano essere compromessi dall’esercizio di azioni individuali da parte dei singoli creditori.

3.2. I nuovi finanziamenti

La Raccomandazione in esame, a conferma del favor delle istituzioni europee verso la prevenzione dell’insolvenza e il recupero delle imprese in crisi, ha previsto che i finanziamenti concessi per l’attuazione del piano di ristrutturazione non debbano poter essere «dichiarati nulli, annullabili o inopponibili in quanto atti pregiudizievoli per la massa dei creditori», in modo tale da incentivare il sostegno finanziario alle imprese in difficoltà. La Raccomandazione ha inoltre chiarito che i soggetti che concedono i nuovi finanziamenti, previsti nel piano di ristrutturazione omologato dal giudice, dovrebbero essere esonerati da qualsiasi responsabilità (civile o penale) connessa al processo di ristrutturazione.

Si tratta per la verità di «regole minime» che però appaiono perfettamente coerenti con lo spirito e la ratio complessiva del provvedimento.

3.3. Il piano di ristrutturazione: contenuto e caratteristiche

Il provvedimento analizzato in questa sede è intervenuto, in primo luogo, sul contenuto minimo del piano di ristrutturazione, precisando che esso dovrebbe contenere una descrizione dettagliata i) dei creditori interessati dal piano; ii) degli effetti della ristrutturazione proposta su singoli crediti o categorie di crediti; iii) della posizione dei creditori riguardo al piano di ristrutturazione; iv) delle condizioni per (eventuali) nuovi finanziamenti; nonché v) dell’idoneità del piano a impedire l’insolvenza del debitore e a garantire la redditività futura dell’impresa.

Quanto alla struttura, la Raccomandazione in esame ha precisato che il piano può contemplare la suddivisione dei creditori in classi, purché a ciascuna classe appartengano creditori portatori di interessi omogenei. Da questo punto di vista, un utile elemento discretivo è sicuramente rappresentato dalla circostanza che i creditori siano o meno titolari di una garanzia.

Peraltro, più in generale, la Commissione Europea ha voluto garantire ai creditori interessati dalla procedura di ristrutturazione il massimo grado di coinvolgimento, invitando i legislatori dei singoli Stati membri a prevedere modalità di partecipazione al voto con mezzi di comunicazione a distanza.

3.4. Modalità di attuazione del piano, omologazione ed effetti

Allo scopo di semplificare le modalità di accesso alle procedure di ristrutturazione dell’impresa in crisi, il provvedimento in esame ha previsto che il debitore debba essere posto in condizione di avviare il processo di risanamento «senza dover iniziare ufficialmente un’azione in giudizio».

Si colloca lungo la stessa linea di intervento la previsione in virtù della quale il giudice non è obbligatoriamente tenuto a nominare un «mediatore o supervisore», dovendo piuttosto valutare di volta in volta se tale nomina sia o meno necessaria, considerato che il mediatore ha il compito di assistere il debitore e i creditori nel condurre a buon fine il negoziato sul piano di ristrutturazione, mentre il supervisore esercita essenzialmente una funzione di controllo sulla regolarità del negoziato. Alla luce di quanto precede, e con specifico riferimento al nostro ordinamento, si può osservare che la figura del mediatore non è perfettamente sovrapponibile a quella del commissario giudiziale dei nostri concordati preventivi: rimane dunque da capire se quest’ultimo possa esercitare anche le funzioni di mediatore o se, in caso contrario, sia necessario procedere alla nomina di un altro soggetto che possa assumere ed esercitare tali specifiche funzioni.

Per ciò che concerne invece le modalità di adozione del piano, la Commissione ha inteso innanzitutto assicurare la vincolatività del piano di ristrutturazione nei confronti di tutti i creditori, una volta che sia stato approvato dalla maggioranza di questi e omologato dal giudice. Peraltro, nel caso in cui sia stata prevista la suddivisione in classi, il piano di ristrutturazione dovrebbe essere approvato dalla maggioranza dei crediti di ciascuna classe.

Nondimeno, in una prospettiva di certezza del diritto e di tutela dei differenti interessi coinvolti nella procedura di ristrutturazione, il piano che abbia ripercussioni nei confronti dei creditori dissenzienti o che preveda nuovi finanziamenti dovrebbe essere vincolante unicamente dopo che sia intervenuta l’omologazione da parte del giudice, che tuttavia potrà avvenire esclusivamente qualora siano state rispettate una serie di condizioni minime di garanzia, dettagliate nella Raccomandazione.

Risponde alle medesime esigenze di garanzia la previsione per effetto della quale tutti i creditori potenzialmente interessati dal piano di ristrutturazione dovrebbero essere informati dei suoi contenuti e godere del diritto di opporsi, proponendo ricorso contro il piano stesso. Anche in questo caso, però, la Commissione si è sforzata di contemperare l’interesse – particolare – dei creditori pregiudicati dal piano a opporsi a quanto in esso previsto e quello – generale – al risanamento dell’impresa. È stato infatti disposto che, in linea di principio, il ricorso contro il piano di ristrutturazione non deve sospenderne l’attuazione.

La Commissione, tuttavia, ha voluto impedire un impiego meramente dilatorio e opportunistico degli strumenti di prevenzione dell’insolvenza del debitore in crisi, chiarendo che, in ogni caso, gli Stati membri sono tenuti a provvedere affinché il giudice possa respingere i piani che appaiano manifestamente inidonei rispetto alla ristrutturazione dell’impresa o a garantirne la redditività futura.

A ogni modo, dal punto di vista dell’efficacia, è opportuno precisare che la Raccomandazione in esame parrebbe distinguere tra piani votati all’unanimità (in quanto tali idonei a vincolare tutti i creditori a prescindere dall’intervento del giudice) e piani non votati all’unanimità (che, viceversa, necessitano dell’omologazione del giudice per poter vincolare tutti i creditori, ancorché dissenzienti).

A tal proposito è possibile notare che, sebbene il provvedimento della Commissione intenda semplificare notevolmente l’accesso alle procedure di ristrutturazione dell’impresa in crisi valorizzandone – da una parte – gli aspetti privatistici e riducendo – dall’altra parte – l’intervento del giudice, resta comunque fermo in capo all’Autorità giudiziaria sia il potere di accordare il beneficio della sospensione delle azioni esecutive, sia quello di omologare il piano, in modo tale da renderlo vincolante anche nei confronti dei creditori che abbiano manifestato il proprio dissenso.

4. Fresh start

Come si è anticipato, l’altro macro-obiettivo del provvedimento in esame è permettere all’imprenditore “onesto ma sfortunato” di godere di una seconda chance. La Raccomandazione ha pertanto previsto che l’imprenditore sia ammesso al beneficio della liberazione integrale dei debiti interessati dal procedimento di composizione della crisi dopo un massimo di tre anni decorrenti dalla data del fallimento, in caso di procedura liquidatoria, ovvero dall’attuazione del piano di ristrutturazione, in caso di procedura di risanamento.

Occorre tuttavia tenere ben presente che il beneficio della liberazione dai debiti ha carattere premiale e, di conseguenza, non può essere concesso all’imprenditore che abbia agito in modo disonesto o in male fede ovvero che non abbia cooperato in funzione della tutela degli interessi dei creditori, ad esempio, non aderendo a un piano di ristrutturazione particolarmente idoneo a tal fine.

Peraltro, nella visione della Commissione, ferme le condizioni appena richiamate, l’effetto dell’esdebitazione dovrebbe essere una conseguenza automatica del decorso del termine triennale dal fallimento o dall’attuazione del piano di risanamento, senza che sia necessaria alcuna specifica richiesta al giudice.

5. Conclusioni

 I primi commenti relativi alla Raccomandazione in esame sono stati complessivamente favorevoli, sebbene non siano mancate alcune critiche delle quali, sia pure sinteticamente, pare opportuno rendere conto.

In particolare, benché siano stati apprezzati i contenuti del provvedimento adottato dalla Commissione Europea, ha destato alcune perplessità lo strumento normativo scelto per veicolarne l’attuazione negli ordinamenti degli Stati membri, ossia la Raccomandazione, la quale, data la natura non vincolante, rischierebbe di tradursi in un intervento scarsamente incisivo al lato pratico.

Peraltro, tale preoccupazione parrebbe rivelarsi ancor più fondata a fronte delle brevi tempistiche previste per l’attuazione della Raccomandazione medesima. È stato infatti stabilito che gli Stati membri debbano procedere ad attuare i principi in essa enunciati entro 12 mesi dalla sua pubblicazione, avvenuta il 12 marzo 2014, e che la Commissione ne valuterà l’attuazione entro 18 mesi, decorrenti dalla stessa data.

Per tale ragione, pur auspicando che la scelta della Commissione Europea si riveli adeguata ed efficace, è emerso il convincimento che la traduzione in diritto vigente dei principi espressi nella Raccomandazione richiederà tempistiche maggiori rispetto a quelle previste. È stato pertanto suggerito di non escludere a priori l’opportunità di adottare, in un secondo momento e in caso di mancata attuazione della Raccomandazione, una direttiva in modo da abbreviare i tempi per la realizzazione dei medesimi obiettivi.

Matteo L. Vitali

Matteo Miramondi

1. Premise

 The present memorandum sets out a brief illustration of the discipline of the “innovative start-up company” introduced by the so-called “Decree Growth 2.0”, namely Decree Law, October 18th 2012, n. 179, “Further urgent measures for the development of the Country”, converted into Law December 17th, 2012, n. 221 and published in the Official Gazette on December 18th, 2012, n. 294 (1).

The recent reform, inspired by the aim to innovate the range of tools designed for new businesses and enterprises, with the declared target to make them more competitive and “flexible”, has provided and disciplined the “innovative start-up company” in order to promote the development of an economic and entrepreneurial environment favorable to innovation, research and development, able to support a larger social mobility and to attract new investment and capitals.

From a general point of view, the new legislation provides a relevant series of advantages and benefits – of civil and fiscal nature – in favor of the companies that decide to adopt such corporate form, provided that (i) are satisfied certain procedural and substantive requirements compulsory for the establishment of the innovative start-up and (ii) the company is registered in the dedicated special section of the Registrar of Companies.

2. Definition of “innovative start-up” and compulsory requirements.

The second paragraph of art. 25 of Decree Law October 18th, 2012, n. 179 (as modified by the law of conversion) includes a number of formal and substantive requirements necessary for a company to be qualified as innovative start-up.

First of all, under a formal profile, it can be established as innovative start-up the corporation (and thus: public limited company, limited liability partnership, limited liability company – also in the form of simplified Ltd or 1 Euro Ltd), also established in the form of cooperative company, governed by Italian law, or the European Corporation (SE), resident in Italy, whose shares or stakes representing the capital stock are not listed on a regulated market or on a multilateral trading facility.

Under a substantive profile, the discipline requires the presence of a number of requirements necessary for the company to be qualified as innovative start-up.

In particular:

  1. the company shall be established and carry out business activities by no more than 48 months;
  2. the company shall have its principal place of business and its interests in Italy;
  3. starting from the second year of activity, the total value of the annual production, resulting from the latest balance sheet (approved within six months from the end of the year), shall not exceed 5 million Euros;
  4. the company shall not distribute profits;
  5. the company shall have as corporate purpose (exclusive or predominant) the development, production and marketing of innovative products and services with high technological value;
  6. the company shall not have been formed by a merger, by a demerger, or as result of the sale of the business or business. In addition to these requirements, the innovative start-up shall also meet at least one of the following additional substantive requirements:
  • the expenses on research and development sustained by the company shall be higher than or equal to 15 percent of the major value between the costs and the total value of the production. On this regard, expenses and costs for the purchase and lease of real estate are excluded from the calculation of the amount of the expenses on research and development. Moreover, in addition to the general provisions of accounting standards, shall be considered as expenses in research and development: expenses related to pre- competitive and competitive development, such as experimentation, prototyping and development of the business plan; costs of incubation services provided by certified incubators; gross costs of internal staff and external consultants employed in research and development activities, including shareholders and directors; legal fees for the registration and protection of intellectual property and licenses;
  • the company shall employ, as employees or consultants, in a percentage equal to or higher than one third of the entire workforce, persons that hold a PhD or that are currently working on a PhD in an Italian or foreign university, or persons in possession of a degree that have worked, for at least three years, in research activities in certified private or public research institutes, in Italy or abroad. Alternatively, the company shall employ, in a percentage equal to or higher than two-thirds of the total workforce, persons that hold a master’s degree;
  • the company shall be the holder, or licensee, or custodian, of at least an industrial invention’s patent relating to an industrial biotechnology, a topography of semiconductor product or a new plant variety, or shall be the holder of the rights relating to an original processor program registered in the special public register for processor programs, provided that such patents are directly related to the corporate and business activities.

The previous formulation of art. 25, second paragraph, of Decree Law October 18th, 2012, n. 179 provided that, in the innovative start-up, the individual shareholders were required to hold, at the time of the establishment of the company and for the following 24 months, the majority of the shares or stakes with voting rights in the ordinary shareholders’ meeting. Such provision, introduced with the aim of ensuring the personal aspect of the start-up’s corporate structure in its initial phase, nevertheless, was repealed by art. 9, sixteenth paragraph, lett. a), of the so-called “Decree Work” (i.e. Decree Law June 28th, 2013, n. 76, converted with amendments into Law August 9th, 2013, n. 99). Therefore, in force of the abrogation of the aforementioned constraints on the composition of the stock capital of the start-up in the first 24 months after its establishment, investment funds and venture capital funds are now allowed to investment, without restrictions of any kind, in the capital of companies constituted as innovative start-ups.

3. Certified incubator of innovative start-ups.

In addition to the figure of the innovative start-up, the legislative framework also provides the figure of the so-called “certified incubator of innovative start-ups”, defined as the corporation, also established in the form of cooperative company, governed by Italian law, or the European Corporation (SE), resident in Italy, which offers services to support the creation and development of innovative start-ups. In particular, in order to be qualified with this form, the company shall meet the following requirements:

  1. must be holder of facilities, including real estate, adequate to accommodate innovative start-ups, such as spaces reserved to install the equipment necessary for testing, verification or investigation activities;
  2. must be holder of appropriate equipment, adequate to the activities of innovative start- ups, such as systems for ultra-broadband network access, meeting rooms, equipment for tests or prototypes;
  3. shall be administered or directed by persons of recognized competence in the field of business and innovation and shall be provided with a permanent technical and management structure;
  4. shall cooperate and work regularly with universities, research centers, public institutions and financial partners that carry out activities and projects related to innovative start-ups;
  5. shall have an adequate and proven experience in the support activities for innovative start-ups.

The possession of such requirements is self-certified by the incubator for innovative start- ups itself through a statement signed by its legal representative, at the time of registration in the special section of the Registrar of Companies.

4. Registration in the special section of the Registry of Companies and exemption from starting fees and charges.

In order to take advantage of the various benefits provided by the law, the innovative start- up and the certified incubator of innovative start-ups shall be compulsory registered in the dedicated special section of the Registrar of Companies.

Moreover, from the time of registration in the special section, the innovative start-up incubator and the certified incubator are exempt from the payment of stamp duties and administrative fees due for the execution of the formalities related to the registration in the Registry of Companies, as well as from the payment of the annual fee due to the Chamber of Commerce. These exemptions are, however, conditional on the maintenance of the legal requirements necessary for the status of innovative start-up or certified incubator and last up to four years from the date of registration.

5. Exceptions to corporate law.

In order to promote innovative start-ups and certified incubators, the legislation provides various derogations and exceptions to civil and corporate law. In particular:

  • in the event of losses major than a third of the value of the capital stock, it is possible to postpone until the second year of activity the compulsory shareholders’ resolution for the reduction of the capital stock, notwithstanding the specific requirements of art. 2446, second paragraph, and art. 2482-bis, fourth paragraph, of the Italian Civil Code;
  • in the event of a reduction of the capital stock below the legal minimum required, the shareholders’ meeting may postpone to the end of the following social exercise the compulsory resolution necessary to reduce the capital and simultaneously increase it up to an amount not minor than the legal minimum capital, as provided by art. 2447 and 2482-ter of the Italian Civil Code;
  • the act of incorporation of the innovative start-up established in the form of Ltd, notwithstanding the provisions of the Italian Civil Code, can provide classes of stakes that do not confer voting rights or which grant to the shareholder voting rights not proportional to the participation held, or voting rights limited to particular topics or subject to the satisfaction of certain conditions;
  • the stakes of innovative the start-up established in the form of Ltd may be subject to public offerings of financial products, notwithstanding the express provision of 2468, first paragraph, of the Italian Civil Code;
  • in the innovative start-up established in the form of Ltd, the prohibition for the company of operations on the company’s own stakes, as set forth by Article 2474 of the Italian Civil Code, does not apply if the transaction is carried out in execution of incentive plans that provide the allocation of shares or stakes to employees, collaborators, members of the board of directors and providers of work or services.
  • Finally, the act of incorporation of the innovative start-up or certified incubator may also provide, as result of the contribution by shareholders or third parties, including contribution of work or services, the issuance of financial instruments with economic rights or even administrative rights, excluding the vote in the shareholders’ meeting, pursuant to art. 2479 and art. 2479-bis of the Italian Civil Code

6. Financial and fiscal advantages. 

In addition to the issues stated in the preceding paragraphs, the new legislation has introduced several incentives for the establishment and development of innovative start-ups, as well as important benefits of financial and fiscal nature.

In particular, the reform introduced a facilitated taxation and contribution regime with specific regard to stock options and incentive plans based on the allocation of stocks, shares or similar securities to directors and also to employees. In addition, the legislation provides privileged channels for the access to tax credit related to the hiring of highly qualified personnel.

With the express aim of promoting financial investments for the establishment and development of innovative start-ups, the reform also offers significant tax incentives, through the provision of tax deductions and reductions for such investments. Moreover, in order to facilitate the raising of venture capital, it is also allowed the use of equity crowd-funding systems, with the possibility of facilitating the entry of new shareholders through the subscription of capital via online portals on which the company can present its business and activities.

Finally, in order to guarantee a faster and more efficient solution of the company financial crisis, the reform provides a simplification of insolvency proceedings: the innovative start-up cannot be subject to bankruptcy proceedings (and, therefore, cannot be declared bankrupted), with the exception of the alternative regime of resolution for over-indebtedness crisis and proceedings of liquidation of assets.

7. Pros and cons of the innovative start-up.

In favor of companies established as innovative start-ups the reform provides: (i) relevant facilitations for the establishment of the company and its registration in the specific dedicated section of the Registrar of Companies; (ii) significant exceptions to civil and corporate law; (iii) favorable taxation regime with regard to stock options and incentive plans; (iv) expressed simplifications in employment law and labor relations; (v) access to equity crowd-funding systems; (vi) simplification of insolvency proceedings. In the light of this favorable legal regime, the innovative start-up may represent a new corporate structure able to support the establishment and development of companies that have as corporate purpose the creation, development and commercialization of innovative products with high technological value.

Moreover, thanks to the latest modifications introduced to the start-up discipline, the shares or the stocks representing the company’s capital are freely transferable on the market, with a relevant opening to investment funds and venture capital funds interested in financing these types of starting enterprises.

Nevertheless, to maintain the corporate denomination of innovative start-up and take advantage of all the benefits provided by this special figure of company, granted up to a maximum of 4 years from the date of registration, it is necessary to maintain all the requirements provided by the law: if the innovative start-up do not comply with all of such requirements, the company loses the application of the favorable legal discipline.

Some of these conditions and requirements may be limiting for the interest of the shareholders or for the company itself. In particular, (i) the innovative start-up company shall meet all the compulsory requirements provided and at least one of the alternative requirements provided by the law with regard to expenses on research and development, employees and consultants qualifications or industrial invention’s patents; (ii) the innovative start-up company cannot distribute profits; (iii) starting from the second year of activity, the total value of the annual production, shall not exceed the amount of 5 million Euros.

Finally, from a practical point of view, it is interesting to notice that, according to the last data released by the institutions, updated to March 17th, 2014, from the creation of the special section in the Register of Companies, approximately 1800 innovative start-up companies were established in Italy and many others are in process of foundation and development, with previsions of an increasing number of new companies and enterprises willing to adopt this corporate structure.

1. Premessa

A circa quattro anni dall’introduzione dell’art. 123-ter TUF, per effetto del d.lgs. 30 dicembre 2010, n. 259, approvato in seguito al recepimento di alcune Raccomandazioni della Commissione Europea, la Consob è recentemente tornata sul tema della remunerazione degli amministratori pubblicando, nella collana dei “Quaderni di Finanza”, un contributo dal titolo «Say-on-pay in a context of concentrated ownership». Si tratta, in particolare, di un’analisi relativa alla prima applicazione del meccanismo del voto consultivo sulle politiche di remunerazione (c.d. «say on pay») da parte delle società quotate italiane.

La riflessione tocca una problematica generale che – già emersa in misura significativa in seguito alla crisi finanziaria del 2008 e al fallimento di Lehman Brothers – ha finito per rivestire un ruolo centrale nelle tematiche di corporate governance tornando, anche in seguito ad alcuni interventi a livello comunitario, al centro del dibattito dottrinario.

Scopo dichiarato del documento della Commissione è quello di verificare la “tenuta” del meccanismo del voto consultivo rispetto agli assetti proprietari delle società quotate italiane. In particolare, si tratta di esaminare se esso possa effettivamente rappresentare uno strumento con cui possa essere efficacemente espresso il dissenso degli azionisti anche in situazioni in cui l’azionariato sia modulato in maniera, e in misura, tali da vedere una netta prevalenza dei soci di controllo.

È senz’altro d’interesse la metodologia adottata dagli autori del lavoro che – al fine di accertare quali siano gli elementi che spingano gli azionisti a votare contro le politiche di remunerazione – hanno misurato tale propensione rispetto a una serie di variabili rispettivamente riguardanti la struttura della remunerazione, il livello di informativa rispetto alle politiche sui compensi, l’attivismo degli investitori istituzionali, nonché le caratteristiche degli assetti proprietari.

2. Quadro normativo

Mentre per le società «chiuse» la norma di riferimento che regola i compensi degli amministratori è solamente rappresentata dall’art. 2389 c.c. che legittima la modulazione dei compensi sia con la partecipazione agli utili sia con l’adozione di piani di stock option e – per le società che adottano il sistema dualistico di amministrazione – l’art. 2409 terdecies, lett. a) c.c., per le società quotate – rispetto alle quali rimangono in ogni caso applicabili anche le due norme anzidette – è prevista un’ulteriore articolazione del regime. Ciò sia a livello primario (con le disposizioni del TUF: art. 114-bis e, di introduzione recente, art. 123-ter), sia a livello regolamentare (Regolamento Emittenti, n. 11971/99 come modificato: art. 84-quater), sia sotto il profilo della best practice con specifiche previsioni contenute nell’ultima edizione del Codice di Autodisciplina (art. 6).

In tale contesto, assume un rilievo centrale l’art. 123-ter TUF, che, al sesto comma, accoglie, tra l’altro, la regola del c.d. say on pay, prescrivendo che, ventuno giorni prima dell’assemblea annuale degli azionisti, sia messa a disposizione del pubblico una relazione sulla remunerazione.

Tale relazione, approvata dal Consiglio di amministrazione (o dal Consiglio di sorveglianza nelle società che adottano il sistema dualistico), è articolata in due sezioni. La prima sezione deve descrivere le politiche della società in materia di remunerazione dei componenti degli organi di amministrazione, dei direttori generali e dei dirigenti con responsabilità strategiche con riferimento all’esercizio successivo, nonché illustrare le procedure adottate per l’attuazione di tale politica. Questa prima parte della relazione è sottoposta al voto non vincolante dei soci (c.d. say on pay) e i risultati di tale votazione devono essere portati a conoscenza del pubblico attraverso il sito internet della società, entro cinque giorni dalla data dell’assemblea.

La seconda sezione, invece, deve illustrare, nominativamente, per ciascuno dei componenti degli organi di amministrazione e controllo, dei direttori generali e, in forma aggregata, per i dirigenti con responsabilità strategiche, le singole voci in cui si articola la remunerazione.

Più nello specifico, sulla base delle disposizioni regolamentari adottate dalla Consob in attuazione della delega contenuta nell’art. 123-ter T.U.F, è previsto che siano indicati i trattamenti previsti in caso di cessazione della carica o di risoluzione del rapporto (c.d. golden parachutes), mettendone in luce la coerenza con la politica di remunerazione approvata dalla società nell’esercizio precedente.

Tutte le componenti della remunerazione sono suddivise in diverse categorie, tra cui, ad esempio, i compensi fissi o i compensi per la partecipazione a comitati. È altresì prevista una disciplina molto dettagliata per la comunicazione della parte variabile della remunerazione, distinguendo tra stock option e altri piani di incentivazione diversi da queste ultime.

3. Il quaderno di finanza

Si può fin da ora anticipare che – secondo le risultanze del documento Consob – anche in mercati ove la proprietà è più concentrata, le minoranze risultano comunque incentivate a ricorrere al meccanismo del voto consultivo come strumento per indirizzare la propria insoddisfazione. L’origine dell’insoddisfazione degli azionisti, inoltre, non risulta – come si potrebbe superficialmente pensare – collegata alle performance della società – e, quindi, ai risultati della gestione di impresa – ma agli squilibri che si registrano nella determinazione dei compensi.

I risultati sono i seguenti a) il dissenso sulle politiche in materia di remunerazione in Italia è in media pari al 5,1 per cento dei votanti; tale valore appare inferiore, ma non eccessivamente distante da quello registrato in paesi a proprietà dispersa, come USA e UK; b) il dissenso è negativamente correlato con la quota di capitale detenuta dal principale azionista; tale risultato può essere interpretato alla luce del fatto che in imprese a proprietà concentrata la remunerazione dell’organo di amministrazione è sottoposta a un più intenso monitoraggio ovvero che la presenza di un azionista di controllo forte può disincentivare tout court l’espressione del dissenso da parte delle minoranze; c) il dissenso è poco legato alle performance dell’impresa ma è positivamente correlato con la remunerazione del CEO; inoltre il dissenso è negativamente correlato con il livello di disclosure delle politiche, in particolare per quanto attiene alla parte variabile della remunerazione; d) il dissenso è influenzato positivamente dal livello di attivismo degli investitori istituzionali, misurato attraverso la loro partecipazione alle assemblee e attraverso la presenza di amministratori da essi nominati nel board; e) il dissenso è più basso nelle società finanziarie, dove il voto sulle politiche in materia di remunerazione è vincolante; ciò potrebbe indicare che la natura consultiva del voto nella generalità delle quotate non ne riduce l’efficacia in termini di segnale inviato dagli azionisti al board.

Quanto all’articolazione del documento, va rilevato che, dopo una prima parte dedicata all’inquadramento della fattispecie e alla descrizione della disciplina applicabile al fenomeno, la seconda parte si propone di verificare, sulla base dei dati storici, quali siano i fattori che hanno indirizzato il voto degli azionisti nel meccanismo del voto consultivo sulle politiche di remunerazione nelle società quotate italiane.

3.1. Struttura della remunerazione e struttura proprietaria

Si è evidenziato anzitutto che gli azionisti, pur avendo il diritto di votare solo sulla parte della relazione relativa alle politiche future di remunerazione degli amministratori, potrebbero usare il proprio voto al fine di dimostrare la propria insoddisfazione rispetto all’attuale entità e/o struttura dei compensi dei manager, così come emergono dalla seconda parte della relazione.

È stato comunque notato che, in linea generale, non sono comuni situazioni in cui il dissenso degli azionisti è superiore al 20% dei voti espressi in assemblea (7,5%) e, peraltro, con particolare riferimento al nostro ordinamento, le rare volte in cui non è stata raggiunta la maggioranza assoluta (1,8%) erano in corso più complesse vicende di ristrutturazione societaria o di cambio del controllo.

Nondimeno, l’evidenza empirica ha dimostrato che sussiste un rapporto di diretta proporzionalità fra il livello dei compensi dei manager e il dissenso degli azionisti: all’aumentare degli uni aumenta anche l’altro. Più nello specifico, però, il dissenso dei soci si è rivelato particolarmente pronunciato quando le remunerazioni degli amministratori sono state percepite come estremamente, o oltraggiosamente, alte.

Si è altresì osservato che il dissenso degli azionisti è correlato alla struttura della remunerazione. A tale riguardo, però, lo studio pubblicato dalla Conosb premette che, in linea teorica, a fronte dei dati relativi all’ordinamento anglosassone, il dissenso degli azionisti dovrebbe risultare particolarmente elevato proprio con riferimento alle decisioni concernenti la parte variabile della remunerazione degli amministratori.

L’esperienza italiana, tuttavia, risente della struttura proprietaria altamente concentrata che caratterizza la maggioranza delle società quotate. Pertanto, nei casi in cui si riscontra una forte e compatta presenza degli azionisti di controllo, il dissenso espresso attraverso il meccanismo say on pay è mediamente basso. Lo studio Consob ha evidenziato inoltre che tale dissenso in Italia è, mediamente, pari al 5,1%. Si tratta di un dato statistico leggermente inferiore rispetto al risultato medio ottenuto in ordinamenti caratterizzati da azionariato diffuso (7,9% in Gran Bretagna e 8,9% negli Stati Uniti) ma, d’altra parte, si è dimostrato assolutamente in linea con i dati raccolti nell’ordinamento tedesco (6,5%), anch’esso caratterizzato da società con struttura proprietaria altamente concentrata. Ciò che emerge in contesti come quello italiano e quello tedesco si spiega in considerazione del fatto che i soci di controllo sono nelle condizioni per poter monitorare le decisioni degli amministratori relative alla determinazione dei propri compensi. Si potrebbe, in alternativa, ritenere che la presenza di un azionista di controllo forte finisca per disincentivare l’espressione del dissenso da parte delle minoranze.

Di contro, il maggior dissenso che è stato riscontrato negli ordinamenti in cui prevale la struttura proprietaria ad azionariato diffuso, si giustifica proprio in ragione del fatto che manca un azionista di controllo che sia in qualche modo in grado di monitorare le decisioni dell’organo amministrativo.

3.2. Trasparenza sulle voci della remunerazione

Malgrado il Regolamento Emittenti abbia individuato il nucleo minimale di informazioni che devono essere indicate nella sezione della relazione sulle politiche di remunerazione da sottoporre al voto consultivo degli azionisti, questo non ha tuttavia contemplato uno schema standard in base al quale essa deve essere formulata, lasciando così alle singole società un certo margine di discrezionalità circa il livello di trasparenza da adottare. Non va però dimenticato che la disclosure sui compensi degli amministratori permette agli investitori di ottenere informazioni circa il «sistema di incentivi vigente in ogni impresa» e, di conseguenza, favorisce «una più accurata valutazione della società e l’esercizio su base informata dei diritti degli azionisti», nonché l’assunzione di decisioni di investimento

«informate e consapevoli». Pertanto, la discrezionalità lasciata alle singole società dal

Regolamento Emittenti in ordine agli elementi informativi da inserire nella prima sezione della relazione sulla politica di remunerazione dei manager, potrebbe rappresentare un’opportunità per lo sviluppo di una sana e virtuosa competizione fra imprese sul piano della trasparenza riguardo alla struttura e all’entità dei futuri compensi degli amministratori, con il fine ultimo di attrarre investitori.

I dati empirici, infatti, hanno evidenziato che un buon livello di disclosure, riduce il dissenso degli azionisti, i quali da questo punto di vista hanno dimostrato di apprezzare notevolmente la trasparenza, soprattutto per quanto attiene gli elementi che costituiscono la parte variabile della remunerazione dei componenti dell’organo gestorio.

Pertanto, alla luce della correlazione tra disclosure e dissenso degli azionisti, non pare incongruo ritenere che l’esistenza di informazioni dettagliate riguardo alle voci in cui si articola il compenso degli amministratori sia condizione preliminare affinché possano esplicarsi gli effetti positivi del meccanismo di voto sulle politiche retributive adottate dalla società.

A prescindere dal livello di disclosure, tuttavia, gli azionisti si sono rivelati maggiormente sensibili rispetto all’entità del compenso corrisposto agli amministratori, giacché è soprattutto a fronte di remunerazioni particolarmente (e spesso ingiustificatamente) elevate che essi hanno manifestato in misura maggiore il proprio dissenso.

3.3. Attivismo degli investitori istituzionali

Sotto diverso e ulteriore profilo, il documento Consob ha messo in luce l’importanza dell’attivismo degli investitori istituzionali in relazione alle decisioni sul compenso dei manager, tanto che il dissenso espresso dagli azionisti al riguardo è parso positivamente correlato alla presenza di investitori istituzionali attivi e partecipi. Questi ultimi, infatti, possono ricoprire un ruolo assai significativo, non solo prendendo parte all’assemblea generale degli azionisti, ma soprattutto eleggendo – negli ordinamenti in cui è previsto – (almeno) un consigliere c.d. “di minoranza” (6). Secondo lo studio condotto dalla Consob, questo istituto pone le basi affinché gli investitori istituzionali, nominando un proprio consigliere “di minoranza”, estraneo al gruppo di controllo, possano monitorare il comportamento degli amministratori direttamente al livello del consiglio di amministrazione, e, in tal modo, assicurare che la gestione dell’impresa sia orientata al perseguimento dell’interesse sociale e non di quello (personale) del socio egemone o degli amministratori. Pertanto, il consigliere “di minoranza”, specialmente quando – come molto spesso accade – fa parte del comitato per la remunerazione, dovrebbe vigilare affinché gli amministratori non stabiliscano il proprio compenso a un livello troppo elevato e, di conseguenza, estraggano “rendite private” in forma di remunerazioni eccessive.

3.4. Voto consultivo vs. voto vincolante

L’ultimo aspetto meritevole di attenzione riguarda il funzionamento del voto sulle remunerazioni degli amministratori nelle società sottoposte alla vigilanza della Banca d’Italia e dell’ISVAP. In tali ipotesi, infatti, l’assemblea dei soci, probabilmente in ragione della peculiare natura dell’attività bancaria e di quella assicurativa, riveste un ruolo assai incisivo giacché il voto che essa esprime sulla politica di remunerazione dei manager è vincolante rispetto alle successive decisioni del consiglio di amministrazione (9).

La Consob ha tuttavia rilevato che in tale contesto, malgrado il differente ruolo dell’assemblea dei soci, il dissenso degli azionisti è minore rispetto alle realtà in cui il voto sulla politica di remunerazione dei manager ha una funzione meramente consultiva. A questo proposito è stato affermato che la natura vincolante del voto espresso dagli azionisti, i quali in tal modo assumono su di sé la (cor)responsabilità della decisione sulle politiche retributive dei manager, potrebbe ridurre la loro libertà di espressione attraverso la votazione assembleare. Di contro, là dove il voto non è vincolante, essi potrebbero sentirsi più liberi di manifestare il proprio dissenso.

Pertanto, la natura non vincolante del voto sulle politiche di remunerazione degli amministratori non sembra idonea a ridurne l’effettività e la valenza segnaletica nei confronti del mercato; anzi, l’evidenza empirica parrebbe dimostrare il contrario.

Matteo L. Vitali

Matteo Miramondi

1. La disciplina contenuta nel TUF

L’art. 30 del d.l. n. 179 del 18 ottobre 2012 (“Decreto crescita bis”, convertito, con modificazioni, nella l. n. 221 del 17 dicembre 2012) ha introdotto nel Testo Unico della Finanza (TUF), tra l’altro, gli articoli 50-quinquies e 100-ter, rispettivamente relativi alla “Gestione di portali per la raccolta di capitali per le start-up innovative” e alle “Offerte attraverso portali per la raccolta di capitali”.

Si tratta, in particolare, del primo tentativo europeo di prevedere una normativa specifica e organica al fenomeno del c.d. equity crowdfunding, termine con il quale ci si riferisce a un processo di raccolta del capitale di rischio tale per cui uno o più soggetti (non necessariamente investitori istituzionali) acquistano strumenti finanziari emessi da società con i quali vengono poi finanziati specifici progetti imprenditoriali (1). Al fine di facilitare la diffusione di questo nuovo strumento per l’attività di fund-raising da parte delle c.d. «start-up innovative» (2), la disciplina prevede essenzialmente il ricorso a portali internet quali strumenti per la sottoscrizione di strumenti rappresentativi del capitale sociale. Le citate disposizioni consentono infatti la creazione di portali on-line ai quali gli investitori interessati potranno connettersi per visualizzare tutte le offerte disponibili sul mercato, le loro caratteristiche e la descrizione del progetto che ne sta alla base; una volta reperite tali informazioni, sarà possibile per il fruitore del portale effettuare l’investimento.

In particolare, l’art. 50-quinquies TUF – l’unica norma di cui si compone il nuovo Capo III-quater

– definisce i “gestori di portali”, cioè coloro che “esercitano professionalmente il servizio di gestione di portali per la raccolta di capitali per le start-up innovative e [sono] iscritti nel registro” appositamente tenuto dalla  Consob.  Tale  norma  contiene  poi  una  delega  alla  Consob,  cui  spetta  il  compito  di determinare, con regolamento, i principi e i criteri relativi: “a) alla formazione del registro e alle relative forme di pubblicità, b) alle eventuali ulteriori condizioni per l’iscrizione nel registro, alle cause di sospensione, radiazione e riammissione e alle misure applicabili nei confronti degli iscritti nel registro; c) alle eventuali ulteriori cause di incompatibilità; d) alle regole di condotta che i gestori di portali devono rispettare nel rapporto con gli investitori, prevedendo un regime semplificato per i clienti professionali”. Alla Consob spetta anche il ruolo di vigilanza sui gestori di portali per verificare l’osservanza delle disposizioni dettata dal TUF, oltre che dalla relativa disciplina di attuazione.

L’art. 100-ter TUF – incluso nella Sezione II del Capo I del Titolo II del TUF dedicato all’appello al pubblico risparmio e, in particolare, all’offerta al pubblico di sottoscrizione e di vendita – prescrive, innanzitutto, che le offerte al pubblico condotte attraverso i portali possono avere ad oggetto soltanto la sottoscrizione di strumenti finanziari emessi dalle start-up innovative al di sotto della soglia che sarà individuata dalla Consob, destinataria altresì della delega a determinare la disciplina applicabile a tale peculiare tipologia di raccolta del capitale di rischio.

2. La disciplina di rango secondario: dal processo di consultazione al nuovo Regolamento Consob

Al fine di dare attuazione alla normativa primaria contemplata dal TUF, pertanto, era imprescindibile il contributo della Consob. La Commissione, esercitando la delega, ha quindi redatto una prima disciplina regolamentare all’inizio del 2013.

Successivamente, è stata indetta una consultazione pubblica che ha coinvolto associazioni di categoria e studi legali la quale si è conclusa il 30 aprile 2013. Al termine di detta fase, raccogliendo le osservazioni pervenute, la Consob ha provveduto, con delibera n. 18592 del 12 luglio 2013, ad emanare il “Regolamento sulla raccolta di capitali di rischio da parte di start-up innovative tramite portali on-line” (il “Regolamento”). Come si è avuto modo di rilevare all’indomani dell’approvazione del nuovo Regolamento esso non ha mantenuto l’originario impianto con la conservazione pertanto di disposizioni particolarmente onerose per i gestori dei portali.

Infine, la Commissione ha formulato la comunicazione del 1° agosto 2013, con cui ha fornito chiarimenti circa lo svolgimento dell’attività di gestione di portali on-line per la raccolta di capitali da parte di banche e imprese di investimento.

3. Gli obiettivi della disciplina regolamentare

Già alla luce della prima descrizione del fenomeno è immediato comprendere come il legislatore abbia delegato alla Consob la predisposizione di questo Regolamento nell’ottica di stimolare la crescita economica del Paese che permea tutto il Decreto crescita bis. In altre parole, il compito della Consob – e con esso quello del Regolamento – è stato quello di creare un quadro di riferimento affidabile che generi fiducia negli investitori, al fine di agevolare la raccolta dei capitali necessari al sostegno di società medio-piccole (tipiche del tessuto economico italiano) nello svolgimento delle loro attività innovative.

L’investimento nelle start-up innovative è appunto agevolato dallo sfruttamento dei portali on-line, i quali forniscono agli investitori le informazioni sulle start-up e sulle singole offerte tramite la predisposizione di schede dettagliate (di cui il Regolamento fornisce un modello standard all’Allegato 3). L’operare delle piattaforme on-line è quindi cruciale per il successo del Regolamento nella creazione di un ambiente finalizzato e funzionale al finanziamento delle start- up: è stata pertanto cura della Consob garantire la qualità e l’affidabilità del servizio svolto dai portali tramite la predisposizione di una serie di requisiti e regole rivolti a coloro che gestiscono tali portali.

4. Le prescrizioni del Regolamento

Il Regolamento si compone di 25 articoli che possono essere ricondotti sostanzialmente a quattro punti essenziali.

Gli articoli 1-3 forniscono le disposizioni generali, contenendo le deleghe regolamentari, le definizioni e predisponendo un canale di comunicazione preferenziale con la Consob (tramite il seguente indirizzo di posta elettronica certificata: portalicrowdfunding@pec.consob.it).

Gli articoli 4-12 prescrivono la disciplina riguardante il registro dei gestori e comprendono anche le previsioni concernenti la procedura di iscrizione, i requisiti per l’accesso alla stessa e le cause di sospensione e cancellazione dal registro.

Gli articoli 13-23, che rappresentano il “cuore” del Regolamento, riguardano invece gli obblighi di comportamento relativi ai gestori, nonché le garanzie predisposte a tutela degli investitori. La violazione di tali obblighi comporta, ovviamente, l’irrogazione di sanzioni quali la sospensione e la radiazione dal registro.

Infine, gli articoli 24 e 25 riguardano la disciplina delle offerte eseguite tramite i portali.

5. I gestori dei portali

I gestori sono suddivisi in due categorie di soggetti, ossia (i) quelli autorizzati dalla Consob e iscritti a un apposito registro tenuto a cura della stessa Commissione; e (ii) le banche e le imprese di investimento (“SIM”) già autorizzate a fornire servizi di investimento (la stessa ripartizione è replicata nella disciplina del registro dei portali tenuto dalla Consob, in cui i soggetti appartenenti alla prima categoria sono iscritti nella sezione ordinaria e quelli inclusi nella seconda nella sezione speciale).

Con particolare riferimento alle banche e alle imprese di investimento non vengono dettate ulteriori regole nell’ambito del Regolamento rispetto a quelle già previste nel TUF (e nelle relative discipline attuative), essendo la normativa primaria ritenuta più che esaustiva sotto tale profilo.

Al contrario, il Regolamento prevede specifici requisiti soggettivi per i gestori iscritti alla sezione ordinaria. Infatti si prevede che: (i) il gestore debba avere la forma giuridica di società di capitali,

(ii) i soci di controllo di tale società debbano possedere i requisiti di onorabilità (previsti dal Regolamento all’art. 8), (iii) i soggetti che svolgono ruoli amministrativi, direzionali e di controllo di tale società debbano possedere i requisiti di onorabilità e professionalità (previsti dal Regolamento all’art. 9), e (iv) il gestore debba presentare una relazione sull’attività di impresa e sulla struttura organizzativa (art. 7). La perdita di uno dei presenti requisiti comporta la cancellazione dal registro da parte della Consob stessa (art. 12). A tali gestori si applica poi una disciplina meno rigorosa rispetto a quella dettata per gli intermediari di tipo tradizionale: tale circostanza è controbilanciata dalla impossibilità per tali gestori di (i) detenere somme di denaro degli investitori e (ii) eseguire direttamente gli ordini per la sottoscrizione degli strumenti finanziari offerti sui propri portali, dovendo tali ordini essere trasmessi a banche o SIM.

6. Il percorso di investimento consapevole

Allo scopo di favorire la trasparenza e la qualità delle informazioni fornite tramite i portali, di garantire fiducia negli investitori e, quindi, di incentivare la predisposizione all’investimento di capitali, il Regolamento prevede un vero e proprio “percorso di investimento consapevole”, per cui per accedere alla sezione “operativa” del portale è necessario effettuare un triplice passaggio: prendere visione delle informazioni di «investor education», rispondere correttamente a un questionario sulle caratteristiche dell’offerta e sui rischi ad essa connessi e dichiarare di essere in grado di sostenere, eventualmente, anche l’intera perdita (art. 15).

7. Le informazioni reperibili sui portali

Le informazioni a cui l’investitore deve poter accedere tramite il portale (e, viceversa, di cui il gestore deve garantire l’accessibilità al pubblico) sono sostanzialmente di tre tipi: quelle relative al portale (art. 14), quelle relative all’investimento (art. 15) e, infine, le informazioni riguardanti la singola offerta (art. 16).

Per ciò che concerne il portale, l’investitore deve essere messo a conoscenza (i) dell’identità del soggetto che gestisce il portale, (ii) delle attività svolte dal portale, (iii) di come sono gestiti gli ordini e la loro sottoscrizione, (iv) dei costi a suo carico, (v) delle misure predisposte dal portale per la gestione dei rischi di frode/conflitti di interesse/reclami/trattamento dati, (vi) dei risultati raggiunti dal portale, (vii) della normativa di riferimento (vale a dire del Regolamento e del TUF),

(viii) delle sanzioni che la Consob ha adottato nei confronti del gestore del portale e (ix) delle iniziative assunte nei confronti delle start-up in caso di inosservanza delle regole di funzionamento del portale.

Con riferimento all’investimento operato in capitale di rischio emesso da una start-up innovativa, l’investitore deve essere informato su: (i) il rischio di perdere l’intero capitale, (ii) il rischio di non poter liquidare in tempi brevi l’investimento, (iii) la mancata partecipazioni ai dividendi fino al momento in cui la società resti start-up innovativa, (iv) i benefici fiscali, (v) il business plan e (vi) il diritto di recesso attribuito dal Regolamento stesso ed esercitabile entro il termine di 7 giorni a decorrere dall’adesione all’offerta.

Infine, relativamente alla singola offerta, l’investitore deve poter reperire sul portale: (i) una scheda con tutte le informazioni indicate dalla Consob (l’Allegato 3 del Regolamento), (ii) le banche o le SIM cui saranno trasmessi gli ordini, (iii) il c/c della start-up innovativa, (iv) le informazioni e le modalità per esercitare il diritto di revoca dell’adesione all’offerta e (v) le informazioni aggiornate circa le complessive adesioni all’offerta.

8. L’adesione all’offerta

Una volta avuto accesso a tutte queste informazioni e completata la “procedura di investimento consapevole”, se l’investitore decide di aderire all’offerta, il gestore del portale trasmette (in maniera “rapida, corretta ed efficiente”) l’ordine alla banca o alla SIM indicata nell’offerta stessa. Solo queste ultime saranno legittimate a dare seguito all’effettiva conclusione del processo, consistente nella sottoscrizione degli strumenti finanziari.

Questa fase rientra pertanto nell’ambito di applicazione della disciplina riguardante i servizi di investimento che pone in capo ai soggetti autorizzati una serie di obblighi informativi e comportamentali (si tratta della normativa prevista dal TUF e dal c.d. MiFID). Tuttavia – sempre nell’ottica di favor per lo sviluppo del crowdfunding – il Regolamento prevede un’esenzione dall’applicazione della disciplina sui servizi di investimento per quegli investimenti che siano complessivamente sotto la soglia di (i) 500 euro per singolo ordine e 1.000 euro per ordini complessivi annuali, in caso investitore persona fisica e (ii) 5.000 euro per singolo ordine e 10.000 euro per ordini complessivi annuali, in caso di investitore persona giuridica (art. 17).

9. Ulteriori obblighi dei gestori

Il Regolamento prevede, oltre a quelli informativi appena visti, anche ulteriori obblighi posti a carico dei gestori dei portali. Alcuni sorgono in ragione degli strumenti tecnici utilizzati, comportando il dovere di dotarsi di sistemi operativi “affidabili e sicuri”, di individuare le fonti di rischio operativo e predisporre le relative precauzioni e procedure di controllo (come, ad esempio, dispositivi di backup) (art. 18). È poi sancito un obbligo di riservatezza relativo a tutte quelle informazioni di cui il gestore entra in possesso nell’esercizio della sua attività (art. 19).

La documentazione e la corrispondenza connesse alla gestione del portale – rappresentando materiale di sostanziale importanza per la trasparenza e qualità del servizio offerto – devono essere conservate dal gestore per almeno cinque anni (art. 20).

Da ultimo, il gestore ha l’obbligo di comunicare prontamente alla Consob (i) eventuali variazioni dello statuto sociale, (ii) variazioni relative ai soggetti che detengono il controllo, (iii) variazioni relative ai soggetti che svolgono le funzioni di amministrazione, direzione e controllo, (iv) il venir meno dei requisiti di onorabilità e le relative delibere di sospensione e revoca della carica.

Oltre a tali obblighi (il cui sorgere in capo al gestore è solo eventuale), ve ne sono poi alcuni di automatica applicazione e da adempiere entro il 31 marzo di ogni anno; essi riguardano in particolare: (i) la predisposizione di una relazione sulle attività svolte e sulla struttura organizzativa (secondo lo schema dell’Allegato 2 del Regolamento), (ii) la comunicazione dei dati sull’operatività del portale, (iii) i dati sui casi di discontinuità operativa e sulla relativa durata e, infine, (iv) i dati sui reclami ricevuti (art. 21).

10. I provvedimenti cautelari e sanzionatori

La violazione degli obblighi previsti dal Regolamento può generare in capo al gestore un provvedimento sia cautelare (se sussistono fondati elementi dell’esistenza di gravi violazioni e per un periodo non superiore ai 90 giorni, art. 22), sia sanzionatorio.

Quest’ultima tipologia, in particolare, si suddivide in due categorie: la sospensione dall’attività di gestore in caso di violazione delle regole di condotta e la radiazione dal registro nelle più stingenti ipotesi di a) svolgimento dell’attività in assenza delle condizioni richieste dal Regolamento, b) contraffazione della firma dell’investitore, c) acquisizione/detenzione di somme di denaro/strumenti finanziari di pertinenza di terzi, d) comunicazione alla Consob di informazioni/documenti inveritieri, e) mancata comunicazione alle banche o alle SIM dell’esercizio del recesso da parte dell’investitore e f) ogni altra violazione di specifiche regole di condotta di particolare gravità (art. 23).

11. Gli strumenti finanziari emessi dalle start-up innovative

Sia il TUF sia il Regolamento vigente prevedono, infine, regole speciali riguardanti le offerte on- line di strumenti finanziari emessi da start-up innovative, in particolare, stabilendo che esse: (i) non possono superare la somma di 5 milioni di euro, (ii) possono essere gestite solo da portali curati da soggetti iscritti nel Registro della Consob, (iii) possono avere ad oggetto solo strumenti finanziari rappresentativi del capitale di rischio, (iv) vanno a buon fine solo se il 5% dell’ammontare è sottoscritto da un investitore professionale, (v) devono riconoscere il diritto di revoca agli investitori per i casi di significativi mutamenti nella start-up o nelle condizioni dell’offerta e (vi) possano provenire solo da società i cui statuti prevedano il diritto di recesso in caso di trasferimenti del controllo e la pubblicazione dei patti parasociali (art. 24).

12. Il diritto di pentimento

Infine, quale significativa garanzia a tutela degli interessi degli investitori retail, il Regolamento conferisce loro il “diritto di cambiare idea”, che si configura quale diritto di recesso da esercitarsi entro 7 giorni dall’adesione (o dal pervenire di nuove informazioni concernenti l’investimento) e senza alcuna spesa (art. 25).

  1. I rischi connessi al crowdfunding

Il Regolamento predisposto dalla Consob appare coerente con l’intento di facilitare la raccolta di capitali presso il pubblico e, tuttavia, esso presenta dei “lati oscuri” che rappresentano inevitabilmente dei rischi per gli investitori.

A tale proposito, si osservi che, ad esempio, rivolgendo l’investimento esclusivamente verso le

c.d. start-up innovative si convoglia senz’altro l’intero flusso di capitali reperibili sul mercato verso queste ultime e, tuttavia, si determina investimenti che, necessariamente, non potranno essere riferiti né alla storia della società, né al settore in cui opera, né ai risultati che essa abbia conseguito. In altri termini, gli investitori potranno unicamente confrontarsi e apprezzare l’idea proposta e contenuta nel progetto, con il rischio che la decisione di investire sia presa per lo più da un punto di vista “emozionale” piuttosto che basandosi su elementi economici e razionali. Altro elemento è dato poi dalla possibilità di sottoscrivere unicamente strumenti di capitale di rischio che, se da un lato garantiscono l’apporto alla società di risorse fresche senza esporla all’indebitamento (ma, appunto, unicamente per mezzo di equity), dall’altro generano un rischio molto più elevato per l’investitore e che consiste, di fatto, nella possibilità di perdere l’intero capitale investito.

Il Decreto crescita bis, disponendo il divieto di distribuzione di utili alle start-up innovative ha sostanzialmente imposto che tutte le ricchezze generate da questo tipo di società non possano fuoriuscire da esse ma, anzi, vengano puntualmente reinvestite, assicurando ulteriori capitali. La disposizione, senz’altro lodevole per la crescita delle imprese, fa però sì che l’investitore, almeno per i primi anni, possa esclusivamente godere dell’accrescimento del valore della propria partecipazione (dato dal reinvestimento degli utili nella società cui partecipa) e non abbia invece alcun accesso ad una forma di ricchezza “diretta” come gli utili.

Altra disposizione di rilievo del Decreto crescita bis, al pari della precedente, è senz’altro quella che vieta alle start-up innovative di negoziare nei mercati organizzati i propri strumenti finanziari. Questa norma, se da un lato “protegge” la società dall’esposizione al mercato e alle sue oscillazioni, dall’altro potrebbe far sì che gli strumenti acquisiti dagli investitori tramite i portali siano poi difficilmente cedibili e, conseguentemente, illiquidi. Da ciò, oltre che la difficoltà per i sottoscrittori di effettuare il c.d. disinvestimento, deriva anche la difficoltà di calcolare il reale valore di mercato degli strumenti emessi.

Infine, l’utilizzo di uno strumento così diffuso e potenzialmente di grande impatto quale internet, pur rappresentando un’innovazione di grande portata e di enorme facilitazione per il movimento di capitali dalle mani dei piccoli investitori alla loro valorizzazione in imprese ad alto contenuto tecnologico e innovativo, risulta di fatto anche idoneo alla proliferazione di truffe.

Da questa panoramica, emerge che l’investitore correttamente informato debba essere indotto a investire: (i) solo ed esclusivamente un capitale di cui possa permettersi la totale perdita, (ii) dopo aver raccolto adeguate informazioni e averle giudicate sulla base di elementi economici e razionali, (iii) con la consapevolezza che, almeno inizialmente, difficilmente percepirà un beneficio economico immediato dalla partecipazione e altrettanto difficilmente gli sarà possibile disinvestire e (iv) facendo ben attenzione alle credenziali del gestore del portale, verificando il registro dei gestori predisposto dalla Consob e controllando eventuali anomalie, posto che la raccolta di capitali promossa tramite portali si perfeziona sempre e solo tramite banche o SIM.

Matteo L. Vitali

Giacomo De Zotti

1.      Obiettivi

In linea con gli obiettivi del piano d’azione europeo noto come Strategia Europa 2020 per migliorare l’accesso ai finanziamenti per le piccole e medie imprese (“PMI”), il 21 Marzo 2013 il Consiglio dei Ministri UE ha adottato il Regolamento UE n. 345/2013 del Parlamento Europeo e del Consiglio sui “Fondi Europei per il Venture Capital”, che entrerà in vigore a partire dal 22 luglio 2013.

Come noto, il venture capital finanzia imprese nella fase iniziale della loro attività ma che mostrano una grande potenzialità di crescita e sviluppo. I fondi, oltre a reperire ed investire il capitale necessario, svolgono anche attività di consulenza strategica verso queste imprese, stimolando la loro competitività e appetibilità sul mercato. Queste forme di finanziamento consentono non solo la mobilitazione di capitali, ma permettono anche lo sviluppo di imprese innovative, migliorandone la crescita economica e favorendo la ricerca.

Il Regolamento interviene dettando una disciplina comune di riferimento a livello europeo di cui sono destinatari, nei termini che si diranno appresso, i fondi di investimento per il venture capital. La nuova disciplina ha come obiettivo la riduzione degli ostacoli alla gestione dei fondi, causati dalla diversità e dalla complessità delle legislazioni dei diversi Stati europei e dei conseguenti elevati costi di raccolta che avevano portato ad un livello generale di investimento piuttosto esiguo in questa tipologia di fondi. Il Regolamento stabilisce norme uniformi applicabili a tutti i fondi europei per il venture capital che, nel rispetto dei requisiti di applicazione, desiderino raccogliere e investire capitale con la denominazione “EuVECA” (European Venture Capital Fund), sottoponendosi al regime di benefici e corrispettivi obblighi previsto per i fondi qualificati da tale status. La definizione mediante Regolamento europeo dei requisiti necessari al fine di poter utilizzare la predetta denominazione permette un’applicazione diretta e uniforme della normativa nei confronti dei gestori di fondi operanti nel contesto europeo, garantendo condizioni omogenee, incrementando la chiarezza e la fiducia degli investitori ed eliminando indebite distorsioni della concorrenza tra fondi di Stati membri differenti.

2.      Benefici

La possibilità di usufruire della denominazione EuVECA garantisce notevoli vantaggi  per il fondo così qualificato, posto che è assimilabile ad uno sorta di attestato di qualità. Innanzitutto, una volta registrato sotto tale denominazione, il fondo potrà raccogliere capitale, commercializzare e offrire strumenti di partecipazione (al fondo) in tutti gli Stati membri UE nel solo rispetto dei requisiti del Regolamento, senza essere più sottoposto alle normative nazionali dei singoli Stati.

Gli investitori che decidano di investire in venture capital saranno maggiormente attratti da questi fondi qualificati, semplificando e migliorando la ricerca di capitali per il gestore e garantendo un finanziamento più stabile e cospicuo per le imprese che ne fruiscono.

La normativa sugli EuVECA è in un certo senso complementare a quella dei GEFIA (Gestori di Fondi di Investimento Alternativi, disciplinati nella Direttiva 2011/61/UE), in quanto offre la possibilità di ottenere un “passaporto europeo EuVECA” per i gestori di fondi che gestiscono valori non eccedenti i 500 milioni di Euro (il Regolamento 345/2013/UE si applica solo ai gestori di organismi collettivi di investimento che non superino complessivamente la soglia di cui all’art. 3, par. 2, lett.b), della direttiva 2011/61/UE). Il regime GEFIA è obbligatorio per tutti i fondi che superino il valore di gestione di 500 milioni di Euro, mentre è solamente facoltativo per gestori di fondi con valori non superiori a tale soglia, che hanno la possibilità di optare volontariamente per la sua applicazione. In virtù della nuova normativa questi ultimi possono ora scegliere di adottare la diversa qualificazione EuVECA, un’alternativa dalla forma più snella, con requisiti meno rigidi e impegnativi, prevista proprio per agevolare questi fondi con assets di minor entità. Mentre il regime GEFIA è obbligatorio per i fondi che superino tali soglie di gestione, la denominazione EuVEca è una scelta libera del gestore che, rispettati i requisiti di applicazione, può liberamente decidere di avvalersene o meno (per tutti i fondi gestiti oppure anche individualmente per ogni singolo fondo).

3.      Registrazione: requisiti per i gestori

Al fine di poter usufruire della denominazione “EuVECA” per il fondo (o per i fondi) gestiti, il gestore deve registrarsi presso le competenti autorità del proprio Stato membro d’origine, ai fini del rilascio del relativo “passaporto commerciale”. Una volta registrato, il gestore può scegliere se utilizzare o meno la denominazione per i fondi amministrati, a condizione che sia il fondo sia gli investitori rispettino i requisiti previsti dalla normativa (vedi infra par.4, 5 e 6).

Per ciò che concerne il gestore, egli è tenuto a rispettare determinati requisiti per ottenere il passaporto: a norma dell’art. 2 infatti, il Regolamento si applica ai gestori di “organismi di investimento collettivo” (i FIA, Fondi di Investimento Alternativo, come definiti all’art. 4, par. 1, lett. a), della direttiva 2011/61/UE), che soddisfino le seguenti condizioni:

  1. le loro attività gestite non superano complessivamente la soglia di 500 milioni di Euro (di cui all’articolo 3, par. 2, lett. b), della direttiva 2011/61/UE);
  2. sono stabiliti nell’Unione;
  3. sono tenuti alla registrazione presso le autorità competenti del proprio Stato membro d’origine; e
  4. gestiscono portafogli di fondi per il venture capital

È da notare come i gestori che superino la soglia prevista dalla lettera a) possono comunque continuare a utilizzare la denominazione EuVECA a condizione che, in relazione al fondo da essi gestito, assicurino in ogni momento il rispetto dei requisiti di cui alla direttiva 2011/61/UE ed il perdurante rispetto di alcuni requisiti del Regolamento (art. 3, 5 e 13, par. 1, lett. c) ed i)).

4.      Requisiti per il fondo

In linea con gli obiettivi di finanziamento verso piccole e medie imprese all’inizio della loro esistenza e per circoscrivere gli organismi di investimento a ciò legittimati, a norma dell’art. 3 lett. b) è considerato “fondo per il venture capital qualificato” (qualifying venture capital fund) il fondo che:

  1. intende investire almeno il 70 % dell’ammontare complessivo dei propri conferimenti di capitale e del capitale sottoscritto non richiamato in attività che sono “investimenti ammissibili”;
  2. non utilizza oltre il 30 % dell’ammontare complessivo dei propri conferimenti di capitale e del capitale sottoscritto non richiamato per l’acquisizione di attività che “non sono investimenti ammissibili”;
  3. è stabilito nel territorio di uno Stato

Secondo il Considerando (n.12) al Regolamento, è opportuno che il 30% costituisca in ogni momento il limite massimo per gli investimenti non ammissibili, mentre il 70% è la soglia che si riferisce agli investimenti ammissibili durante tutto il ciclo di vita del fondo.

Ai fini della qualificazione di quelli che sono considerati “investimenti ammissibili” (qualifying investments), il Regolamento definisce gli strumenti indicati di seguito:

  1. strumenti rappresentativi di equity o quasi-equity che siano emessi: da “un’impresa di portafoglio ammissibile” (vedi infra 5) e acquisiti dal fondo per il venture capital qualificato direttamente dall’impresa di portafoglio ammissibile; da un’impresa di portafoglio ammissibile in cambio di un titolo di equity emesso dall’impresa di portafoglio ammissibile; o da un’impresa di cui l’impresa di portafoglio ammissibile sia una società controllata con una partecipazione di maggioranza e che siano acquisiti dal fondo per il venture capital qualificato in cambio di uno strumento rappresentativo di equity emesso dall’impresa di portafoglio ammissibile;
  2. prestiti garantiti e non garantiti concessi dal fondo per il venture capital qualificato a un’impresa di portafoglio ammissibile nella quale il fondo per il venture capital qualificato detiene già investimenti ammissibili, a condizione che non oltre il 30% dell’ammontare complessivo dei conferimenti di capitale e del capitale sottoscritto non richiamato del fondo per il venture capital qualificato sia utilizzato per tali prestiti;
  3. azioni di un’impresa di portafoglio ammissibile acquisite dagli azionisti esistenti di tale impresa;
  4. quote o azioni di uno o più fondi per il venture capital qualificati, a condizione che questi ultimi non abbiano investito a loro volta oltre il 10% dell’ammontare complessivo dei conferimenti di capitale e del capitale sottoscritto non richiamato in altri fondi per il venture capital

5.      La nozione di «Imprese di portafoglio ammissibile» ai sensi del Regolamento

L’attività principale dei fondi deve quindi essere di investimento primario nelle imprese, in linea con quelli che sono gli obiettivi di promozione di quelle di piccole e medie dimensioni operanti nell’economia reale, grazie agli strumenti finanziari da queste direttamente emessi. Proprio con queste finalità il Regolamento definisce i requisiti di ammissibilità per le imprese in cui si intende investire, escludendo invece enti creditizi, imprese di investimento, assicurazioni e, più in generale, attività finanziare che trattano titoli emessi in mercati secondari.

Secondo le definizioni del Regolamento, per “impresa di portafoglio ammissibile” (qualifying portfolio undertakings) si intende un’impresa che:

  1. al momento dell’investimento da parte del fondo per il venture capital qualificato (i) non è ammessa alla negoziazione su un mercato regolamentato né a partecipare a un sistema multilaterale di negoziazione (MTF); (ii) impiega meno di 250 dipendenti; e (iii) ha un fatturato annuo non superiore a 50 milioni di Euro o un bilancio annuale totale non superiore a 43 milioni di Euro;
  2. non è un organismo di investimento collettivo;
  3. non è un ente creditizio, o un’impresa di investimento, o un’impresa di assicurazione, o una società di partecipazione finanziaria, o una società di partecipazione mista;
  4. è stabilita nel territorio di uno Stato membro o in un paese terzo a condizione che il paese terzo abbia firmato un accordo con lo Stato membro d’origine del gestore e con ogni altro Stato membro in cui è previsto che le quote o le azioni del fondo siano commercializzate, in modo da garantire il rispetto di normative fiscali e antiriciclaggio internazionali (come meglio specificato dal Regolamento stesso).

Per evitare incentivi a un utilizzo distorto degli investimenti e degli strumenti offerti, i fondi non possono utilizzare prestiti con leva finanziaria, né sottoscrivere strumenti derivati, né assumere posizioni di rischio o utilizzare metodi attraverso i quali l’esposizione del fondo aumenti tanto da eccedere il livello del capitale sottoscritto. In ogni caso, i gestori del fondo possono contrarre prestiti, concedere garanzie ed emettere strumenti di debito, se coperti da impegni non richiamati.

6.      Requisiti per gli investitori

Uno dei principi ispiratori del Regolamento è quello di garantire che i fondi  siano commercializzati e offerti solamente presso investitori con sufficiente professionalità ed esperienza, in grado di valutare con la necessaria competenza le proprie decisioni di investimento e il relativo rischio. Per questa ragione, i fondi qualificati possono offrire quote e azioni esclusivamente presso gli investitori che sono considerati:

  1. investitori professionali o che chiedono di essere trattati come investitori professionali (ai sensi della direttiva MiFID 2004/39/UE);
  2. oppure presso altri investitori che: (i) si impegnino a investire almeno 100.000 Euro e (ii)

dichiarino di essere consapevoli dei rischi connessi all’investimento previsto.

Tali requisiti non si applicano agli investimenti effettuati da alti dirigenti, direttori o dipendenti coinvolti nella gestione di un fondo qualificato quando questi investono nei fondi da loro gestiti, in quanto tali soggetti dispongono delle necessarie capacità ed informazioni per aderire a questi investimenti e comprenderne e valutarne il rischio.

7.      Diligenza e doveri di gestione

Per tutelare la qualità dei soggetti che aderendo al Regolamento acquisiscono la denominazione EuVECA, il Regolamento medesimo prevede requisiti professionali e gestionali per il gestore del fondo e per la sua amministrazione, in modo che siano sempre presenti adeguate risorse tecniche e umane. I gestori sono tenuti a mantenere fondi propri sufficienti, che garantiscano la corretta gestione e la continuità del fondo. Devono essere adottate politiche societarie e procedure idonee a prevenire pratiche scorrette, è richiesto un elevato livello di diligenza nella selezione e nel controllo degli investimenti e delle imprese in cui si investe, devono essere promossi gli interessi del fondo e degli investitori stessi, devono essere continuamente stimate e valutate la gestione dei fondi e delle risorse umane connesse; devono poi essere espressamente identificati ed evitati conflitti di interesse e abusi e degli stessi deve essere data immediata notizia agli investitori.

Infine, il gestore può delegare a terzi alcune funzioni di gestione del fondo, ma nei limiti in cui egli possa essere ancora considerato l’effettivo gestore e non un amministratore solo formalmente in carica svuotato dei necessari poteri. Rimane in ogni caso ferma la responsabilità del gestore nei confronti del fondo e degli investitori anche per le funzioni delegate.

8.      Obblighi informativi verso gli investitori e controlli delle Autorità di Vigilanza nazionali

Il Regolamento insiste fortemente sul profilo informativo e preventivo, ai fini di una maggior trasparenza verso gli investitori e di una collaborazione positiva tra i gestori e le competenti Autorità di controllo. Il gestore è tenuto a comunicare ai potenziali investitori determinate informazioni di carattere precontrattuale per quanto riguarda ogni fondo EuVECA. Le informazioni da fornire sono molto simili a quelle che devono essere normalmente predisposte nei prospetti sui fondi di venture capital.

In particolare, tra gli elementi che devono essere presenti nell’informativa verso gli investitori si possono menzionare: l’identità del gestore del fondo; l’importo del fondo a disposizione del gestore; una descrizione della strategia e degli obiettivi di investimento del fondo comprendente: i tipi di imprese di portafoglio ammissibili in cui si intende investire; gli investimenti non ammissibili che si intende effettuare; le tecniche e le modalità che si intendono impiegare; una descrizione del profilo di rischio del fondo; una descrizione della procedura di valutazione del fondo e della metodologia di determinazione dei prezzi, delle attività e delle imprese di portafoglio ammissibili; infine, i servizi di supporto alle imprese e le altre attività di sostegno fornite per facilitare lo sviluppo e la crescita delle imprese destinatarie.

È poi espressamente previsto l’obbligo di predisporre una relazione annuale sulla gestione e una revisione contabile da diffondere presso gli investitori e da trasmettere alle Autorità nazionali competenti.

Per garantire una continua ed efficace vigilanza sul rispetto dei requisiti e sulla gestione del fondo, le Autorità di Vigilanza dello Stato membro di origine devono essere informate direttamente dal gestore riguardo allo svolgimento della sua attività. L’Autorità competente è autorizzata alla registrazione del gestore solo quando questo rispetti prestabiliti requisiti di competenza, capacità professionale e onorabilità. La registrazione del gestore è valida per l’intero territorio UE e consente di commercializzare in tutto il territorio dell’Unione Europea i fondi per il venture capital qualificati utilizzando la denominazione EuVECA, di cui sono tenuti un registro ed una banca dati accessibili pubblicamente via internet.

Al fine di assicurare un costante controllo dei fondi e degli investimenti effettuati, si riconosce che le Autorità nazionali sono dotate di tutti i poteri di vigilanza e di indagine per un efficiente esercizio delle loro funzioni, in conformità con quelli previsti dalle rispettive leggi nazionali. È poi previsto dal Regolamento che vi sia un regime di stretta collaborazione e un flusso di informazioni continuo tra le Autorità degli Stati ospitanti e quelle dello Stato d’origine. Ove opportuno, nel rispetto del principio di proporzionalità, esse adottano le necessarie misure per garantire che il gestore adempia ai doveri e rispetti gli obblighi previsti dal Regolamento, fino alla proibizione dell’utilizzo della denominazione EuVECA e alla cancellazione del gestore e dei fondi dal registro generale dei fondi qualificati.

9.      Considerazioni conclusive

Il Regolamento permette ai gestori che scelgano di utilizzare la denominazione EuVECA per i fondi da essi amministrati, la possibilità di offrire e negoziare i prodotti connessi al fondo stesso in tutto il territorio dell’Unione Europea, nel rispetto di identiche condizioni e della medesima disciplina. La definizione di un quadro di regole uniformi e comuni a livello europeo ha come obiettivo dichiarato la riduzione della complessità della normativa di riferimento, eliminando le diversità presenti nelle legislazioni nazionali dei diversi Stati europei e garantendo, oltre ad una diminuzione dei costi di gestione, una maggior competitività tra i diversi operatori comunitari. L’eliminazione di ostacoli normativi alla raccolta e all’investimento di capitali negli Stati Membri è passo fondamentale verso la rimozione di indebite distorsioni della concorrenza tra i fondi, al fine di impedire il perpetrarsi, o il sorgere in futuro, di difficoltà e barriere ad un libero scambio nel contesto del mercato unico europeo.

Mediante la predisposizione di una disciplina unica per i fondi qualificati (in particolare sui requisiti di registrazione per il gestore, sulla definizione degli strumenti di investimento utilizzabili, sulla qualificazione delle imprese di portafoglio ammissibili in cui possono essere compiuti gli investimenti, sulla diligenza e sugli obblighi propri dei gestori) il Regolamento traccia una linea di demarcazione netta tra i fondi per il venture capital qualificato e gli altri fondi di investimento alternativi impegnati in ambiti diversi e meno specialistici.

In particolare, le condizioni di applicazione e i requisiti per poter usufruire della denominazione qualificata sono sicuramente più flessibili e meno rigorosi rispetto a  quelli previsti per il regime dei GEFIA. Il Regolamento si pone in maniera complementare e alternativa rispetto a quest’ultima normativa, permettendo la possibilità per i gestori di fondi con un valore non eccedente i 500 milioni di Euro di assoggettare tali fondi alla nuova disciplina dettata per gli EuVECA. L’introduzione di questo regime facoltativo garantisce sicuramente una maggior libertà imprenditoriale per i gestori e un’apertura del mercato per fondi di dimensioni minori, introducendo al contempo maggior flessibilità ed efficienza per l’intero sistema.

Al fine di tutelare gli investitori e di garantire la qualità degli investimenti presso  i fondi qualificati, è poi previsto che gli strumenti predisposti dai fondi possano essere offerti esclusivamente presso investitori professionali o in ogni caso presso soggetti con un adeguato grado di conoscenza e competenza professionale, in grado di valutare l’entità dell’investimento e l’intrinseco rischio connessovi. Sempre in un’ottica di prevenzione è espressamente richiesto un elevato grado di diligenza nella gestione dei fondi e il rispetto di dettagliati doveri di trasparenza e di informativa, sia verso gli investitori stessi, sia verso le Autorità nazionali di controllo e vigilanza.

Infine, osservando il Regolamento tramite una prospettiva generale di politica economica, esso sostiene la predisposizione e l’impiego su larga scala di strumenti specifici e qualificati per il finanziamento diretto verso imprese che, trovandosi nella fase iniziale della loro esistenza, necessitano fortemente di capitali e liquidità. Grazie alla loro attività, i fondi per il venture capital permettono la mobilitazione di ingenti capitali e consentono la creazione e lo sviluppo nel mercato di imprese nuove, con carattere altamente innovativo. L’impatto complessivo del Regolamento non è dunque da circoscriversi solamente a livello della raccolta e dell’investimento presso i fondi, ma ha risvolti concreti direttamente sulla crescita di piccole e medie imprese, sulla creazione di posti di lavoro e, su di un piano generale, rappresenta un importante incentivo alla crescita economica, alla ricerca e all’innovazione, di cruciale importanza nell’attuale contesto congiunturale.

Matteo L. Vitali – Filippo Caprotti

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